La dignità e il decoro imposti dalla sua funzione gli impongono di astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti e offensive

di Marina Crisafi - L'avvocato ha il dovere di comportarsi, "in ogni situazione, con la dignità e con il decoro imposti dalla funzione che l'avvocatura svolge nella giurisdizione e deve in ogni caso astenersi dal pronunciare espressioni sconvenienti od offensive (art. 52 ncdf, già 20 c.d.f.), la cui rilevanza deontologica non è peraltro esclusa dalla provocazione altrui, né dallo stato d'ira o d'agitazione che da questa dovesse derivare". A stabilirlo è il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 61/2015, pubblicata il 25 marzo scorso sul sito istituzionale (qui sotto allegata), rigettando il ricorso di un avvocato avverso la decisione del Coa di Roma che gli infliggeva la sanzione disciplinare dell'avvertimento.

Nella vicenda, il consiglio territoriale a seguito dell'esposto da parte del giudice dell'esecuzione del tribunale di Perugia apriva procedimento disciplinare a carico del professionista per violazione degli artt. 20 e 53 del codice deontologico forense, per aver dato letteralmente "in escandescenza" nei confronti del magistrato al momento del conferimento dell'incarico al nominato c.t.u. di stima del compendio pignorato in un processo esecutivo, ripetendo "a gran voce che - lo stesso - avrebbe dovuto sospendere la procedura" e che stava commettendo "un atto contrario alla legge".

L'incolpato, secondo l'esposto, nonostante i ripetuti inviti del giudice proseguiva nella sua condotta aggressiva e minacciosa, aggravandola nei gesti e nelle parole, arrivando ad affermare che "una cosa del genere non l'aveva mai vista in 48 anni di professione" e minacciando di denunciare il magistrato al Csm e al ministro.

Il consiglio territoriale, dato il tenore sconveniente della voce e delle espressioni proferite, riteneva integrate le violazioni deontologiche contestate e irrogava la sanzione disciplinare dell'avvertimento.

Il Consiglio Nazionale forense ne abbraccia le conclusioni e a nulla valgono le doglianze dell'avvocato, volte a denunciare un vizio di motivazione della decisione basata sulla ricostruzione di fatti riferiti dai testi escussi e ritenuta coerente nonostante fossero state rilevate diverse incongruenze.

Per il Cnf, infatti, "benché l'avvocato possa e debba utilizzare, infatti, fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel criticare e contrastare le decisioni impugnate, tale potere/dovere trova un limite nei doveri di probità e lealtà, i quali non gli consentono di trascendere in comportamenti non improntati a correttezza e prudenza, se non anche offensivi, che ledono la dignità della professione. La libertà che viene riconosciuta alla difesa della parte non può mai tradursi in una licenza ad utilizzare forme espressive sconvenienti e offensive nella dialettica processuale, con le altre parti ed il giudice, ma deve invece rispettare i vincoli imposti dai doveri di correttezza e decoro".

Nella fattispecie il tenore delle espressioni rivolte in aula e all'indirizzo del giudice, come correttamente stabilito dal Coa, si legge in sentenza, "ha trasceso i limiti della pur ferma e legittima caparbia reazione, ultronea rispetto alla dialettica del processo, pur avendo potuto l'avvocato separatamente e dopo l'udienza mettere in moto tutte le iniziative consentite dall'ordinamento, lasciando agli organi istituzionalmente preposti ogni valutazione in ordine ai fatti narrati nel loro oggettivo e storico svolgimento".

Da qui la conferma della sanzione.

Cnf, sentenza n. 61/2015

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