Il dipendente pubblico che svolge una seconda attività lavorativa senza dichiararlo all'amministrazione datrice di lavoro, rischia di perdere il posto; ma quando il dopolavoro è un'attività di escort… le cose possono cambiare… La sentenza n. 21107/2014, emessa dalla prima sezione civile della Corte di Cassazione, ha infatti dichiarato illegittimo il licenziamento da parte di un ente pubblico di un impiegato-gigolò, per mancato rispetto della normativa sulla privacy.

Una segnalazione anonima, qualche anno fa, diede l'input ai dirigenti di una Amministrazione Provinciale del Piemonte per andare a sfruculiare nella vita privata dell'impiegato Tizio (in particolare fra le sue attività internettiane), "accusato" di condurre una seconda vita di prostituto. Navigando fra i siti e social "allegri" indicati nella comunicazione, i capi arrivarono presto alla triste conferma della maldicenza: Tizio pubblicava annunci di prestazioni sessuali a pagamento per dedicare i suoi momenti liberi ad un poco edificante dopolavoro di intrattenitore. A questo punto, scattava il procedimento disciplinare culminato nel licenziamento del dipendente, colpevole di aver danneggiato l'immagine dell'Amministrazione.

Ma Tizio non si rassegna al provvedimento e, soprattutto, non accetta quella che gli sembra un'indebita intromissione nella sua vita privata: le informazioni volte a rivelare gli orientamenti e le abitudini sessuali dei lavoratori appartengono alla categoria dei dati sensibili e come tali sono fatte oggetto di una tutela rafforzata da parte del legislatore a norma dell'art. 4 del D.lgs. 196/2003; possono essere trattati solo previo specifico consenso dell'interessato e solo per determinate finalità. 

È su queste basi che, dopo essersi visto negare giustizia dal Tribunale del Lavoro di Verbania - che nel 2012 aveva certamente escluso una violazione delle disposizioni di cui al D.lgs. 196/2003 -, con l'avallo del Garante della Privacy, Tizio è infine ricorso in Cassazione, dove le sue ragioni hanno oggi trovato accoglimento


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