La Corte di Cassazione, con sentenza n. 27055 del 2 dicembre 2013, ha chiarito che il divieto di licenziare le lavoratrici che si sposano vale per l'intero anno dalla data delle nozze anche nel caso in cui l'azienda sia in fase di ristrutturazione organizzativa con il ridimensionamento e la diversa organizzazione dei Reparti, compresi quelli in cui operava che si è sposata.

La Suprema Corte ha precisato che "l'art. 1, L. n. 7 del 1963 dispone " del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa del matrimonio

" specificando al comma 3 "si presume che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio.... a un anno dopo la celebrazione., sia stato disposto per causa di matrimonio". Il termine " disposto" non lascia adito a dubbi di sorta, così come correttamente sottolineato nella sentenza impugnata, che la presunzione di nullità riguarda ogni recesso che sia stato " deciso" nell'arco temporale indicato per legge, indipendentemente dal momento in cui la " decisione " di recesso sia stata attuata. Una diversa interpretazione porterebbe del resto a soluzioni in contrasto non solo con la formulazione letterale della norma ma anche con ratio della disciplina finendo con il consentire abusi e l'aggiramento della normativa in parola."

Non sussiste alcuna diversità di ratio - precisano i giudici di legittimità - rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 1204/1971 in materia di tutela della lavoratrice madre interpretata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 1526/1998 nel senso dell'irrilevanza del momento di operatività del recesso (e quindi del periodo di preavviso), essendo prevalente la data in cui questo è stato deciso.  Si tratta di provvedimenti legislativi - si legge nella sentenza - che nel loro insieme "tendono a rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di passaggio "esistenziale" particolarmente importanti da salvaguardare attraverso una più rigorosa disciplina limitativa dei licenziamenti che sgravi la lavoratrice dall'onere della prova di una discriminazione addossando al datore di lavoro l'onere di allegare e documentare l'esistenza di una legittima causa di scioglimento del rapporto. I due provvedimenti legislativi sono palesemente accomunati da questo medesimo scopo di ordine costituzionale ed anche dalle stesse tecniche di tutela."  

La Corte di appello ha osservato che "anche a dare per ammesso che l'ipotesi prevista di cessazione dell'attività dell'azienda possa, in quanto legittimante il recesso nel periodo sospetto, valere anche per mere ipotesi di cessazione del ramo di azienda, nel caso in esame si era solo dimostrato una complessa operazione di ristrutturazione organizzativa attraverso il ridimensionamento e la diversa organizzazione dei Reparti ricevimento e portineria e quindi l'esistenza di ragioni inerenti l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro che la legge non ritiene possano giustificare un recesso nel periodo sospetto. Si tratta di questioni comunque non rilevanti per giustificare un recesso nel periodo sospetto in quanto il legislatore a monte ha ritenuto pertinente solo la cessazione dell'attività, non una sua ristrutturazione, giudicando in via presuntiva prevalente sul punto la necessità della tutela rafforzata della lavoratrice-donna rispetto al diritto di cui all'art. 41 Cost., in un bilanciamento tra interessi costituzionali in gioco in coerenza con quanto previsto dal capoverso dello stesso articolo della Carta costituzionale."


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