di Marco Massavelli - Ai fini della configurabilità del delitto di ricettazione non è necessaria la sussistenza di un dolo diretto, ma è sufficiente, dal punto di vista psicologico soggettivo la sussistenza del dolo eventuale, ravvisabile nella consapevolezza da parte dell'agente della provenienza illegittima del bene ricevuto e della relativa accettazione del rischio, desumibile anche da prove indirette.
È quanto ha affermato la Corte di Cassazione penale con sentenza n. 43741 del 25 ottobre 2013, tornando ad esprimersi sulla questione del dolo eventuale nel reato di ricettazione.
Riportandosi ad una ormai costante giurisprudenza di legittimità (a partire dalla sentenza n. 12433 del 26.11.2009 delle Sezioni Unite chiamate a dirimere il contrasto, tra i diversi orientamenti esistenti in sede dottrinale e giurisprudenziale sulla compatibilità del reato di ricettazione con il dolo eventuale), la S.C. ha affermato che affinchè la fattispecie del reato de qua possa ritenersi integrata, "è necessaria la consapevolezza della provenienza illecita del bene ricevuto, senza che sia peraltro indispensabile che tale consapevolezza si estenda alla precisa e completa conoscenza delle circostanze di tempo, di modo e di luogo del reato presupposto, potendo anche essere desunta da prove indirette, allorchè siano tali da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale, e secondo la comune esperienza, la certezza della provenienza illecita di quanto ricevuto".
Pertanto, ha chiarito la Corte, la conoscenza della provenienza delittuosa del bene, si può desumere "da qualsiasi elemento, anche indiretto, e quindi anche dal comportamento dell'imputato che dimostri la consapevolezza della provenienza illecita della cosa ricettata, ovvero dalla mancata - o non attendibile - indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede".
Una malafede ravvisata nel caso di specie, trattato dai giudici di legittimità, in cui l'imputato alla guida di una moto, durante un controllo di polizia stradale, incorreva in una violazione amministrativa seguita dalla sanzione accessoria del fermo del veicolo. Dai successivi accertamenti, non veniva rintracciato il proprietario del suddetto veicolo, risultato fittizio, e l'imputato, mero conducente, giustificava il possesso del bene sostenendo di averlo ricevuto, nella sua qualità di titolare di una concessionaria di veicoli, da un soggetto sconosciuto, di cui forniva solo generica descrizione fisica esibendo, nonostante un apparente atteggiamento di collaborazione, una documentazione incompleta dalla quale nulla di concreto poteva ricavarsi sulla reale provenienza della moto.
Il giudice d'appello rilevava la sussistenza della malafede nella condotta dell'imputato e l'elemento soggettivo del reato, posto che a fronte della consegna di un bene di un certo valore, il comportamento del soggetto, quale "persona esperta oltre la media in quanto commerciante del settore" che non risultava in grado di fornire alcun "elemento di identificazione dei soggetti con cui aveva trattato l'acquisto e risultasse priva financo di un numero di telefono che gli consentisse un contatto con il suo dante causa o con la persona che glielo aveva presentato", si poneva in netto contrasto con l'ordinaria prassi commerciale di annotare quanto meno i recapiti telefonici delle persone con le quali si instaurano trattative.
L'assenza di plausibili spiegazioni in ordine alla legittima acquisizione della moto, avendo la Corte territoriale evidenziato l'inspiegabile genericità delle indicazioni fornite dall'imputato sulle circostanze della ricezione del mezzo e, in particolare, sulle persone che glielo avevano consegnato, si pone, secondo la Suprema Corte, come coerente e necessaria conseguenza di un acquisto (o quanto meno di un possesso) illecito, a nulla rilevando il fatto che, nel caso in esame, la denunzia per il reato di truffa sia stata presentata circa una settimana dopo il sequestro penale del bene disposto perché ne era stata accertata la provenienza illecita (appunto, dal delitto di truffa), posto che la responsabilità per il reato di ricettazione "non richiede l'accertamento giudiziale della commissione del delitto che ne costituisce il presupposto (ossia il furto), nè dei suoi autori, nè dell'esatta tipologia del reato, potendo il giudice affermarne l'esistenza attraverso prove logiche".
Ribadendo, pertanto, che "l'elemento psicologico della ricettazione può essere integrato anche dal dolo eventuale, configurabile in presenza della rappresentazione da parte dell'agente della concreta possibilità della provenienza della cosa da delitto e della relativa accettazione del rischio", la Corte ha quindi rigettato il ricorso condannando l'imputato.

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