Per la Cassazione il termine non può integrare diffamazione perché ha acquisito una connotazione non più dispregiativa

di Marina Crisafi - Dare del "matto" a qualcuno non integra reato. L'espressione infatti non sconvolge più nessuno, avendo acquisito una connotazione non dispregiativa che al massimo identifica una persona eccentrica. Ad affermarlo è la quinta sezione penale della Cassazione, in una recentissima sentenza (n. 21021/2016 qui sotto allegata), accogliendo il ricorso di una donna avverso la decisione del tribunale di Belluno che l'aveva condannata per il reato di diffamazione per aver additato come "pazza" un'altra persona durante una conversazione con il fratello della stessa.

L'imputata aveva adito piazza Cavour lamentando l'errata applicazione della legge penale, rilevando la sostanziale inoffensività dell'epiteto "matta" e i giudici le hanno dato ragione.

Ai fini dell'accertamento dell'idoneità dell'espressione utilizzata a ledere il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice ex art. 595 c.p., si legge infatti in sentenza, "occorre fare riferimento ad un criterio di media convenzionale in rapporto alle personalità dell'offeso e dell'offensore nonché al contesto nel quale detta espressione sia pronunciata; nel contempo è necessario considerare che l'uso di un linguaggio meno corretto, più aggressivo e disinvolto di quello in uso in precedenza è accettato o sopportato dalla maggioranza dei cittadini determinando un mutamento della sensibilità e della coscienza sociale".

Nel caso di specie, per gli Ermellini, ha sbagliato il giudice di merito a non tenere conto di questi principi, ancorando la propria valutazione al mero significato lessicale della parola "matta" che invece è inidoneo a ledere la reputazione della persona offesa, giacché non riflette "l'intenzione di formulare un effettivo giudizio di disvalore della medesima, quanto piuttosto fare riferimento a quei significati che il suddetto termine è venuto assumendo nel linguaggio comune come sinonimo di persona eccentrica ovvero irascibile e similaria e che sono socialmente considerati accettabili".

Da qui l'annullamento della sentenza con rinvio perché il fatto non sussiste.

Cassazione, sentenza n. 21021/2016

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