Un progetto del tribunale di Terni prevede una indagine sulla violenza domestica, prima di disporre un affidamento condiviso, che risente di un pregiudizio di genere. Lodevole iniziativa viziata da preconcetti

L'intenzione è sicuramente condivisibile: in presenza di violenza domestica (non è chiaro se solo denunciata o accertata) non si può stabilire un affidamento condiviso. E, comunque, si deve effettuare un monitoraggio delle situazioni sospette, dopo avere affidato i figli in forma condivisa, affiancando alle decisioni assunte in sede civilistica quelle dei procedimenti penali. Sono questi gli obiettivi di un progetto pilota in corso di attuazione presso il TO di Terni per iniziativa della Presidente della sezione civile, Monica Velletti.

La tradizionale carenza di documentazione, che rende ancora più pesante la drammatica lentezza dei tribunali italiani, rende altamente apprezzabile l'idea. Una idea che oltre tutto si sposa perfettamente con l'esigenza, segnalata dal Manifesto Psicoforense (documento firmato da oltre 60 tra i più accreditati esperti del settore), di effettuare anzitutto una accurata indagine quando un bambino rifiuta di incontrare uno dei genitori, per accertare se si tratta della sua giusta reazione a una situazione di abuso oppure di una manipolazione della sua volontà, cioè di un maltrattamento psicologico (altrettanto grave, se non di più) da parte dell'altro genitore. Non a caso il progetto di Terni intende sagacemente prendere in esame ogni forma di abuso, anche quello psicologico.

All'interno di queste positive premesse si colloca, tuttavia, una non lieve preoccupazione, derivante dalla descrizione degli scopi sostanziali del progetto, fornita dalla suddetta Presidente in una intervista al Messaggero (Umbria).

Vi si preannuncia, infatti, in una sorta di premonizione, o divinazione degli esiti, che questi saranno a senso unico, poiché "… l'affidamento condiviso dei figli

può tradursi in una forma di vittimizzazione secondaria della donna. Costretta a sedersi allo stesso tavolo del suo persecutore per decidere ogni scelta relativa ai figli, dalla scuola, allo sport, alla residenza. In presenza di violenza solo il preciso accertamento delle responsabilità, con percorsi di recupero da parte dell'uomo violento, può permettere soluzioni condivise». Valutazioni alle quali l'intervistatrice aggiunge la sintesi di altre dichiarazioni, secondo le quali il progetto opererà "Superando per sempre il luogo comune, lo stereotipo, per il quale un uomo che ha agito violenza contro la sua partner possa essere un buon padre. Un uomo violento non è mai un buon padre".

Naturalmente, tutte queste considerazioni sono assolutamente condivisibili per l'aspetto che trattano. Resta il fatto che non appare costituzionalmente orientata una visione che presuma che il reato possa provenire solo da soggetti di un medesimo genere. E l'altra metà del cielo? Ora, chi scrive ammette il coinvolgimento personale; anzi apprezza e ammira quanti sono animati da forti passioni e, ideologicamente schierati, non fanno mistero della propria vocazione, per la quale si spendono generosamente.

A condizione, però, che agiscano nei propri spazi, entro i confini del proprio mandato, rinunciando a piegare a scopi di parte il potere loro conferito per finalità sopra le parti. Certamente non è dato sapere come il progetto verrà declinato. Ma le premesse, con la dichiarata presunzione di colpa a carico di un solo genere, sono preoccupanti.

Anche perché l'idea di partenza (ovviamente sperando che alla "confessione" non seguano fatti concludenti), che la violenza domestica - considerata in ogni suo aspetto, fisico, sessuale, psicologico ed economico - sia solo maschile non trova riscontro nella più attendibile tra le indagini disponibili.

Per verificarlo, occorre confrontare le preliminari categoriche presunzioni con i dati oggettivi raccolti dal Centro Nazionale di Ascolto del Telefono Azzurro nel periodo compreso fra il luglio 2000 e il giugno 2001, pubblicati dall'EURISPES unitamente al Telefono Azzurro nel 2° Rapporto nazionale sulla condizione dell'infanzia, della preadolescenza e dell'adolescenza (pp 61 e segg.). Anche se si tratta di un'indagine non recente, non vi è alcun motivo per ritenere che la situazione non sia ancora sostanzialmente la medesima, a prescindere dalle normali fluttuazioni statistiche. Giova anche rammentare l'entità del campione, che si dimostra sicuramente rappresentativo e attendibile. Nell'intervallo di tempo considerato sono state raccolte, infatti, 476.249 telefonate (ovvero mediamente 1305 al giorno) e sono state offerte 34.839 consulenze, delle quali 7339 con problematiche rilevanti. La raccolta e l'analisi dei dati sono state estremamente ricche e complesse, venendo osservata una quantità elevatissima di parametri, per genere, età, regione di provenienza, eccetera. Da sottolineare, inoltre, che le segnalazioni sono state spontanee, a differenza di altre raccolte dati, in cui la consultazione è partita dall'ente statistico, che si è rivolta a soggetti preselezionati, ai quali ha rivolto anche domande suggestive.

Relativamente alle situazioni di disagio o di abuso gli esiti, estremamente interessanti, smentiscono, dunque, molte false opinioni attualmente accreditate, fatte proprie da chi ha ideato il progetto del tribunale di Terni.

Risulta, infatti, dall'indagine del Telefono Azzurro che i soggetti dai quali i bambini prevalentemente ricevono maltrattamenti sono i genitori, entrambi, anche se con differenze per il tipo di abuso (la somma delle percentuali è superiore a 100 perché molte domande sono a risposta multipla, ovvero del maltrattamento possono essere responsabili più soggetti). In particolare, del maltrattamento fisico è responsabile il padre nel 53,0% dei casi (la madre del 42,2%), percentuale che si inverte per il maltrattamento psicologico, da attribuire alla madre nel 47,0% dei casi e al padre nel 44,6%. Una inversione di responsabilità che si accentua per il parametro della trascuratezza, che i bambini attribuiscono alla madre nel 76,2% delle segnalazioni e al padre nel 43,8%. Per quanto attiene agli abusi sessuali il padre ne è responsabile nel 32,0% dei casi, altri parenti nel 21,1% e ancora nel 21,1% i conoscenti. Le responsabilità materne coprono il 4,5% dei casi, un valore paragonabile a quello dei nuovi partner, che si collocano al 4,2%. Sommando e mediando le varie categorie di maltrattamento e abuso si giunge al 42,7% a carico delle madri e al 41,9 a carico dei padri.

Come anticipato, questi dati, ottenuti da un soggetto terzo, sicuramente obiettivo e affidabile perché sicuramente non condizionato né da ideologie, né da interessi economici (ad esempio ottenere finanziamenti condizionati dalla tipologia delle segnalazioni), si pongono in radicale contraddizione con le "presunzioni di colpa" che hanno ispirato il progetto pilota del tribunale di Terni.

Ponendo, dunque, accanto all'iniziativa del tribunale di Terni, che resta intelligente e lodevole, l'effettivo comportamento dei gruppi familiari implicati, come rilevato da una indagine al di fuori di ogni sospetto, si deve concludere auspicando che nell'applicazione del progetto si sia capaci di lasciare da parte i preconcetti ideologici, per procedere a indagare con mente libera e serena ogni situazione segnalata, a prescindere dal genere dei soggetti imputabili. Rammentando, in definitiva, che in tribunale si va per essere giudicati e non per essere pre-giudicati.


Vedi anche: L'affidamento condiviso dei figli

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