I reati omissivi impropri, le posizioni di garanzia e la responsabilità medico-chirurgica alla luce della sentenza 46432 del 2017 sul caso Cucchi

di Salvatore D'Angelo - Il tema che ci occupa richiede la necessità di verificare quale tipo di responsabilità penale possa configurare la condotta omissiva del medico addetto ad una struttura penitenziaria e, ancora più nello specifico, se in tale circostanza possa configurarsi un illecito omissivo improprio in seguito all'evento mortale occorso ad un detenuto.

Nel caso di specie sarà, dunque, necessario svolgere un'indagine a partire dal dato normativo con lo scopo di valutare l'eventuale posizione di garanzia sussistente in capo al personale medico-chirurgico della struttura penitenziaria.

Sembra opportuno, al fine di inquadrare la fattispecie dal punto di vista sistematico, svolgere qualche breve considerazione in ordine ai reati omissivi impropri facendo riferimento all'art. 40 capoverso c.p., ai sensi del quale non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo.

I reati omissivi impropri

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I reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione) sono, dunque, quei reati mediante i quali la legge incrimina il mancato compimento di un'azione giuridicamente doverosa imposta ad un determinato soggetto per impedire il verificarsi di un evento, che in tali casi è l'elemento costitutivo del fatto.

La fattispecie in parola genera dal combinato disposto della clausola di equivalenza di cui all'art. 40 comma 2 del codice penale, con una fattispecie di parte speciale.

Elementi costitutivi del reato omissivo improprio sono la situazione tipica (o meglio il complesso dei presupposti che determinano una situazione di pericolo per il bene protetto, facendo sorgere l'obbligo giuridico di attivarsi), la condotta omissiva e l'evento che si aveva l'obbligo di impedire.

Ne deriva che snodo cruciale di tale tipologia di reati è rappresentato dal fatto che essi richiedono, ai fini della loro configurabilità, che l'evento si verifichi e lo faccia proprio in virtù dell'omissione.

Il suddetto obbligo giuridico, richiamato dall'art. 40 co. 2 c.p., può essere distinto in due tipologie differenti: obbligo di protezione o di controllo.

Nel primo caso si ha l'obbligo di proteggere un determinato soggetto dalla generalità degli eventi negativi a cui quest'ultimo potrebbe essere esposto; nel secondo caso, invece, il soggetto garantisce una determinata persona da eventi causati da una specifica fonte a cui è funzionalmente collegato.

In sostanza, i reati omissivi impropri sono caratterizzati da un particolare ruolo che riveste il soggetto giuridicamente obbligato nei confronti del titolare dell'interesse leso dall'evento, ricoprendo egli la c.d. "posizione di garanzia".

Sul tema della "posizione di garanzia" è giusto il caso di sottolineare che si riscontrano due diversi orientamenti giurisprudenziali circa la fonte da cui tale obbligo giuridico discenderebbe.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, di stampo formalistico, l'obbligo di impedire l'evento di cui all'art. 40 comma 2 c.p. dovrebbe scaturire sempre da fonti formali, costituite dalla sola legge extrapenale o dal contratto.

Al contrario, un secondo orientamento spesso avallato dalla giurisprudenza di legittimità, soprattutto in ambito medico, privilegia quale fonte della posizione di garanzia la mera posizione di un soggetto in relazione al caso concreto.

La giurisprudenza penale, in sostanza, richiamando una consolidata giurisprudenza civile individua la fonte della posizione di garanzia sulla base di un "contatto sociale" - ergo un rapporto contrattuale di fatto o una mera situazione fattuale - tra medico e paziente.

In tal modo, l'instaurazione di una relazione diagnostico-terapeutica tra medico e paziente (a prescindere dai rapporti giuridici formali tra le parti) si ritiene sufficiente per far insorgere una posizione di garanzia in capo al personale medico-chirurgico di una struttura sanitaria.

Ciò premesso, venendo a quanto ci interessa più da vicino in questa sede, ci si chiede quale sia la responsabilità del personale medico-chirurgico di una struttura penitenziaria laddove - ad esempio, in seguito all'arrivo di un detenuto che presenti evidenti segni di percosse con ecchimosi e fratture su tutto il corpo o, ancora, uno stato clinico profondamente alterato - mostri totale disinteresse dei sintomi presentati o peggio tenda a sminuirli.

Il caso Cucchi

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Nel caso di reato omissivo improprio realizzato da chi, nello svolgimento dell'attività professionale medico-chirurgica, violi i doveri collegati alla specifica posizione di garanzia che ricopre non impedendo l'evento lesivo, riveste ruolo fondamentale l'accertamento del nesso di causalità tra l'omissione e l'evento stesso.

Proprio in tema di accertamento del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l'evento dannoso si riscontrano, nell'esperienza pratica, diverse difficoltà.

Sul punto, è pacifico che tale nesso non potrà ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma dovrà essere fondato - alla luce della giurisprudenza di legittimità - su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche e su un giudizio di tipo induttivo, elaborato a partire dal fatto storico e sulla base delle particolarità presentate dal caso concreto.

La decisione della Cassazione

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Una sentenza di riferimento che risulta esemplificativa in tal senso è la sent. 46432/2017 attraverso cui la Corte di Cassazione si è pronunciata, per la seconda volta, sul tristemente noto caso Cucchi.

Sul solco dei precedenti giurisprudenziali elaborati dalla Suprema Corte e come sottolineato all'interno della stessa sentenza in parola: passaggio obbligato per dimostrare la sussistenza del nesso causale tra omissione ed evento lesivo sarà, come noto, il c.d. giudizio controfattuale condotto sulla base di una regola di esperienza o di una legge scientifica da testare rispetto al caso concreto.

In altri termini occorrerà, nel caso del medico addetto ad una struttura penitenziaria, che il giudizio controfattuale si fondi su affidabili informazioni scientifiche e sulle contingenze del caso concreto, dovendosi porre in verifica qual è solitamente l'andamento della patologia in concreto accertata, l'efficacia delle terapie e i fattori che solitamente influenzano il successo degli sforzi terapeutici.

Nel caso di specie, al fine di individuare il nesso eziologico tra la condotta omissiva del medico addetto ad una struttura penitenziaria e l'evento morte di un detenuto, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si dovrà ragionare a partire dagli elementi concernenti la causa dell'evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici, il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, sarà possibile analizzare la condotta omissiva addebitata e verificare se l'evento lesivo, al di là di ogni ragionevole dubbio, sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato ma in epoca posteriore o con minore intensità lesiva.

Ora, come noto, l'art. 3 d.l. 13 settembre 2012 n. 158 (conv. in l. 8 novembre 2012 n. 189), individua le c.d. linee guida a cui il medico deve attenersi in fase di prognosi terapeutica e, sulla base dello stesso così come interpretato dalla Suprema Corte, si esclude in sede giurisprudenziale la responsabilità del personale sanitario che si sia attenuto alle "best practices" in parola.

Ciò posto, però, ad opinione della stessa Corte non si esclude mai la piena autonomia del medico nelle singole scelte terapeutiche, dato che questi è sempre tenuto ad individuare la miglior soluzione curativa, tenendo in considerazione le circostanze specifiche del paziente ed al tempo stesso la sua storia clinica.

Alla luce di tutto ciò sembra logico ritenere che, anche laddove il caso concreto presenti una "complessità o oscurità" ai fini dell'individuazione delle linee guida nel trattamento di una specifica sindrome, la condotta corretta del medico non potrà mai coincidere con il sordo disinteresse o con un intervento tardivo rispetto alle necessità palesi di un paziente.

È in tale contesto che, come anticipato, assume rilevanza il consolidato principio secondo cui una volta che un soggetto si presenti presso una struttura medica ponendosi la necessità evidente dell'erogazione di una prestazione professionale, il medico verrà a trovarsi in una posizione di garanzia nei confronti dello stesso in virtù del semplice "contatto sociale".

Sorge, in altre parole, in capo al personale medico-chirurgico l'obbligo di fare tutto ciò che è nelle sue capacità per salvaguardare l'integrità del paziente nella situazione concreta.

Anche in tal caso, dunque, occorrerà far riferimento alle virtuose pratiche mediche o a corroborate informazioni scientifiche con la conseguenza che quanto maggiore sarà il distacco del medico dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la sua colpa.

Se ciò è vero nei casi più oscuri e di complicata risoluzione, tanto più lo sarà nei casi che si presentino come palesi - secondo il parere dei periti ed esperti in materia - circa le scelte terapeutiche da intraprendere.

Per tornare al fulcro del tema che qui ci interessa, prendendo a titolo esemplificativo la "sentenza Cucchi", sembra il caso di sviluppare un ulteriore ragionamento al fine di chiarire cosa debba intendersi per mancanza di diagnosi o di intervento terapeutico.

Nel caso concreto ci si chiede, innanzitutto, quale sia il modello di comportamento che dovrà adottare il personale medico-chirurgico nei confronti di un paziente detenuto presso una struttura sanitaria che si presenti agli occhi degli stessi con evidenti segni di drammatico dimagrimento, bradicardia e diverse fratture ossee.

In secondo luogo, nel caso del medico che tenda a sminuire i sintomi palesi o, per tornare all'esempio in parola, che dinanzi ad un fenomeno di bradicardia e alla successiva somministrazione di farmaci, ometta di eseguire i dovuti esami e si limiti a "sentire il polso" del paziente (senza neppure annotarlo sul diario infermieristico) si dovrà parlare di diagnosi errata o mancata?

Orbene, innanzitutto sembra palese che in un'ipotesi siffatta non potrà affermarsi certo che il paziente (vittima) sia stato oggetto di concreta attenzione da parte dei medici, i quali adotterebbero una condotta gravemente negligente e ben lontana dalle best practices cui sarebbero tenuti, omettendo i necessari esami e le dovute annotazioni per il corretto accertamento della patologia che si presentava ai loro occhi.

Ulteriormente, sembra anche pacifico che di fronte ad una sproporzione così ampia tra il comportamento richiesto in astratto e quello adottato in concreto da chi si trovi in una posizione di garanzia, non si dovrebbe parlare di semplice diagnosi errata ma, piuttosto, di completo disinteresse verso le condizioni del paziente che, in un simile caso, produrrebbe gli stessi effetti di un mancato intervento terapeutico.

In un'ipotesi del genere, dunque, il sanitario riveste a pieno titolo la posizione di garanzia che discende dall'art. 40 comma 2 c.p. nei confronti del detenuto e laddove la condotta consista, come nel caso di specie, nella totale omissione di cura e assistenza o risulti caratterizzata dal sordo disinteresse rispetto alle condizioni del paziente, il giudizio controfattuale dovrà essere indirizzato alla verifica del generico dovere di anamnesi e ascolto dello stesso.

Alla luce delle argomentazioni su esposte e della giurisprudenza richiamata risulta evidente, dunque, che nel momento in cui il giudizio controfattuale riesca a dimostrare in sede processuale che, nel singolo caso concreto, tale anamnesi e ascolto delle necessità curative del paziente vi sia stata solo in minima parte o, peggio ancora, sia mancata del tutto, verrà a configurarsi a pieno titolo una violazione dell'art. 40 comma 2 c.p. e degli obblighi derivanti dalla posizione di garanzia ricoperta, con tutte le conseguenze penali previste dal codice.

Anche perché è fondamentale sottolineare che, in tale ipotesi specifica, non si parla dell'obbligo di adottare una specifica condotta curativa caratterizzata da chissà quale particolare difficoltà tecnica o che richieda articolate competenze diagnostiche ma, al contrario, del semplice rispetto del giuramento di Ippocrate trattandosi della sola necessità di limitarsi anche solo ad un intervento tempestivo o ad una semplice analisi e presa di coscienza dei palesi bisogni del paziente.


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