Se un immigrato ha un lavoro regolare in Italia e fa entrare clandestinamente un figlio per non abbandonarlo nel paese d'orignie non può essere condannato. Parola di Cassazione. La Corte ha infatti stabilito (sentenza 44048/2008) che un simile comportamento non può essere censurato perché giustificato dal cosiddetto "stato di necessità" ossia da quella scriminante prevista dall'art. 54 del codice penale. Tale norma dispone che "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo..." La Prima sezione penale della Corte ha così respinto il ricorso della Procura
di Trieste contro l'assoluzione dal reato di favoreggiamento dell'ingresso clandestino nel nostro territorio accordata ad un immigrato con un lavoro regolare, che aveva fatto entrare clandestinamente la sua figlia di dodici anni rimasta sola in nel suo paese. L'uomo, un macedone di 39 anni aveva era riuscito ad ottenere il ricongiungimento familiare con la moglie e cono un figlio, ma non era riuscito a portare in Italia la sua bambina e, per questo, aveva deciso di farla entrare in Italia clandestinamente costretto dalla necessità di non abbandonarla in Macedonia. Il papà era finito sotto processo per favoreggiamento dell'ingresso clandestino ma il Tribunale di Trieste lo aveva assolto. La procura, non soddisfatta del verdetto aveva fatto ricorso in Cassazione sostenendo che nel caso di specie non vi era uno "stato di necessita'" perché il padre avrebbe potuto abbandonare il lavoro in Italia e cogliere "le opportunità dell'espansione dell'economia macedone" per non abbandonare la figlia. I giudici di Piazza Cavour hanno bocciato la tesi della procura
e bacchettato il PM che, scrive la Corte, "affida la sua censura a considerazioni meramente congetturali afferenti improbabili o evanenscenti scelte alternative di [... nome omesso ...] la cui valutazione, a fronte dell'argomentazione dell'impugnata sentenza, non può avere ingresso in questa sede". Il papà dunque non va condannato per aver agito "in stato di necessita'" per evitarne "l'abbandono" della sua bambina.

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