Dal silenzio-assenso, agli scudi risarcitori, la resa dello Stato davanti agli sprechi


C'è un modo per smontare un presidio senza dichiararlo. Non lo si abolisce, non lo si delegittima apertamente: lo si circonda di eccezioni, lo si appesantisce, lo si rende inoffensivo. È ciò che sta accadendo alla responsabilità erariale e al sistema dei controlli della Corte dei conti. Un processo che non si consuma in un solo articolo di legge, ma nell'architettura complessiva della riforma: controlli preventivi ingolfati, silenzio-assenso trasformato in via libera, risarcimenti plafonati. Il risultato è un controllo che resta sulla carta e arretra nei fatti.

Il punto non è - o non è solo - la discussione sulla separazione dei pubblici ministeri contabili. Quella è la superficie. Sotto, si muove un meccanismo più profondo: la riduzione della deterrenza. Quando il controllo non arriva in tempo e la responsabilità è comunque limitata, l'errore smette di far paura. E dove l'errore non fa più paura, lo spreco trova casa.

Il primo nodo è il controllo preventivo. La riforma moltiplica le richieste di parere e, insieme, introduce il silenzio-assenso. In apparenza, una semplificazione. In realtà, una scorciatoia. La Corte viene caricata di atti senza che le siano garantite risorse adeguate; se non risponde nei termini, l'atto passa. Non perché sia legittimo, ma perché il tempo è scaduto. È un rovesciamento concettuale: il controllo non certifica più la legalità, ma misura la velocità.

Il secondo nodo è la limitazione della responsabilità erariale. Il doppio tetto al risarcimento - una percentuale del danno e, comunque, un limite legato all'indennità di chi ha sbagliato - introduce un principio estraneo alla tutela delle finanze pubbliche: il danno può essere grande, ma la responsabilità no. Si afferma, di fatto, che amministrare risorse altrui comporta un rischio personale attenuato. È una scelta che spezza l'equilibrio tra potere e responsabilità.

Qui emerge la frattura più evidente, anche sul piano psicologico e sociale. Al cittadino che arreca un danno è chiesto di risponderne integralmente; a chi gestisce denaro pubblico si riconosce uno scudo. Due pesi, due misure. Il messaggio implicito è devastante: sbagliare conviene se l'errore è pubblico. Non perché sia giusto, ma perché è coperto.

C'è poi un effetto sistemico, meno visibile ma altrettanto incisivo. Il silenzio-assenso, combinato con la riduzione del risarcimento, produce un incentivo perverso: meglio chiedere un parere che attendere un controllo, meglio accumulare atti che assumersi decisioni ponderate. La Corte, trasformata in collo di bottiglia, viene usata come scudo ex ante; se non parla, assolve. È l'opposto della funzione di garanzia.

«Le leggi non parlano, ma educano», si potrebbe dire. E questa educa a decidere in fretta e a pagare poco. Educa a un'amministrazione che corre perché sa di non cadere. Ma l'efficienza senza responsabilità non è modernità: è azzardo.

Sul piano sociologico, l'effetto è una corrosione della fiducia. Il cittadino percepisce che il controllo si allenta proprio dove il denaro è di tutti. La democrazia amministrativa vive di una promessa tacita: chi decide risponde. Quando quella promessa si indebolisce, non serve un grande scandalo per incrinarla; basta la sensazione che nessuno pagherà davvero.

Non è un caso che le critiche arrivino da chi conosce dall'interno il sistema dei controlli. Non è difesa corporativa; è allarme istituzionale. Perché il problema non è bloccare l'azione amministrativa, ma renderla responsabile. E la responsabilità non è un freno: è una guida.

Il paradosso finale è questo: per accelerare, si rischia di spendere peggio; per semplificare, si rischia di legittimare l'illegittimo. Il silenzio, elevato a consenso, diventa il linguaggio della spesa pubblica. Ma il silenzio non è mai neutro: assolve senza giudicare.

«Quando il limite scompare, il potere si distrae», verrebbe da dire. E il denaro pubblico, lasciato senza confini effettivi, non si perde all'improvviso: si disperde. Un po' alla volta. Proprio come la responsabilità erariale che oggi, senza proclami, viene messa tra parentesi.


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