Nell'ambito del processo Regeni, la Corte Costituzionale afferma che per le imputazioni di tortura statale la disciplina dell'assenza non può tradursi in una immunità "de facto"


Lo statuto universale del crimine di tortura, delineato dalle dichiarazioni sovranazionali e dai trattati, «è connaturato alla radicale incidenza di tale crimine sulla dignità della persona umana». Pertanto, il dovere dello Stato di accertare giudizialmente la commissione di questo delitto si presenta come «il volto processuale del dovere di salvaguardia della dignità». E' quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 192/2023 (sotto allegata), nell'ambito del noto processo Regeni, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall'art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell'imputato, è impossibile avere la prova che quest'ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell'imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.


La Consulta ha osservato che la paralisi sine die del processo per i delitti di tortura commessi da agenti pubblici, quale deriverebbe dall'impossibilità di notificare personalmente all'imputato gli atti di avvio del processo medesimo a causa della mancata cooperazione dello Stato di appartenenza, «non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale».

Essa infatti «si risolve nella creazione di un'immunità de facto», che offende i diritti inviolabili della vittima (art. 2 Cost.), il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e gli standard di tutela dei diritti umani, recepiti e promossi dalla Convenzione di New York (art. 117, primo comma, Cost.).

La necessità costituzionale di evitare la stasi del processo può essere d'altronde soddisfatta senza alcuna riduzione delle facoltà partecipative dell'imputato, ma imprimendo ad esse una diversa scansione temporale, che si riassume nel diritto dell'imputato a ottenere in ogni fase e grado la riapertura del processo.


Rimettendo al giudice comune l'attuazione di questo diritto nella concretezza del singolo caso, la Corte ha sottolineato che esso, proprio perché conserva all'imputato ogni facoltà processuale, garantisce che la procedibilità in assenza per i delitti di tortura statale sia «rispettosa del principio del giusto processo».

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