Pur schierandosi contro le discriminazioni e per l'uguaglianza la Consulta non giunge a promuovere una effettiva paritetica dignità delle madri

La decisione, le sue ragioni …

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La sentenza della Corte Costituzionale n. 131 del 31 maggio 2022 ha introdotto come regola l'attribuzione del doppio cognome, non più ponendo quello paterno necessariamente al primo posto, per i figli nati nel matrimonio così come fuori di esso, ovvero adottati. Una pronuncia accompagnata da una accurata disamina dei vari sottocasi possibili, passati in rassegna dalla stampa, sia specializzata che generalista, così ampiamente e dettagliatamente che non appare necessario rammentarli in questa sede.

Conviene qui, piuttosto, richiamare le ragioni che hanno condotto i custodi della Costituzione a pronunciarsi nel senso indicato. "Il cognome", si afferma, "quale fulcro - insieme al prenome - dell'identità giuridica e sociale, collega l'individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis … Sono, dunque, proprio le modalità con cui il cognome testimonia l'identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l'eguaglianza e la pari dignità dei genitori." E prosegue richiamando l'art. 262, comma I, periodo II, c.c., ove l'identità familiare del figlio, che preesiste all'attribuzione del cognome, è scomposta in tre elementi: "il legame genitoriale con il padre, identificato da un cognome, rappresentativo del suo ramo familiare; il legame genitoriale con la madre, anche lei identificata da un cognome, parimenti rappresentativo del suo ramo familiare; e la scelta dei genitori di effettuare contemporaneamente il riconoscimento del figlio, accogliendolo insieme in un nucleo familiare

". Per concludere che "La selezione, fra i dati preesistenti all'attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre." Per cui, benché la madre abbia contemporaneamente al padre riconosciuto il figlio, "il segno dell'unione fra i due genitori si traduce nell'invisibilità della donna.". Ed è qui che interviene la necessaria tutela della Costituzione, poiché "L'automatismo imposto reca il sigillo di una diseguaglianza fra i genitori, che si riverbera e si imprime sull'identità del figlio, così determinando la contestuale violazione degli artt. 2 e 3 Cost.".

Prosegue, dunque, la Consulta andando sempre più in profondità, ampliando le motivazioni e suggerendo all'interprete, sembrerebbe in modo inconsapevole, altri profili di devianza dai principi giustamente invocati, sia interni alla problematica del cognome sia esterni ad essa, ma comunque attinenti alla parità di genere e al rispetto del ruolo della donna in quanto madre. Si legge, infatti

"Questa Corte ha da tempo rilevato … che la norma sull'attribuzione del cognome del padre è il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia» (sentenze n. 286 del 2016 e n. 61 del 2006), il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull'attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove contemporaneamente riconosciuto. Si tratta di un automatismo che non trova alcuna giustificazione né nell'art. 3 Cost., sul quale si fonda il rapporto fra i genitori, uniti nel perseguire l'interesse del figlio, né … nel coordinamento tra principio di eguaglianza e «finalità di salvaguardia dell'unità familiare, di cui all'art. 29, secondo comma, Cost.». È, infatti, «"proprio l'eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo", poiché l'unità "si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità" (sentenza n. 133 del 1970)» (sentenza n. 286 del 2016)."

E a questo punto interviene un corretto richiamo alla riforma del 1975, secondo la quale "L'unità della famiglia fondata sul matrimonio si basa «sugli stessi diritti e sui medesimi doveri» dei coniugi (art. 143 cod. civ.), sulla reciproca solidarietà e sulla condivisione delle scelte … Parimenti, l'assunzione di responsabilità in capo ai genitori, dentro e fuori il matrimonio, si radica nell'eguaglianza fra di loro e nell'accordo sulle decisioni che riguardano il figlio". E ancora: "Unità ed eguaglianza non possono coesistere se l'una nega l'altra, se l'unità opera come un limite che offre un velo di apparente legittimazione a sacrifici imposti in una direzione solo unilaterale." Né importerebbe richiamare (come fa la Consulta) l'evoluzione dell'ordinamento per giustificare l'intollerabilità di una visione discriminatoria del gruppo familiare una volta dimostrato che la disciplina dell'attribuzione del cognome viola la Costituzione. Forse il richiamo è funzionale a giustificare il lungo silenzio sul tema dell'intero sistema legale.

Dopo di che, ancora una volta condivisibilmente, si allarga la visione al panorama internazionale. Nuovamente si richiama la necessità di combattere le discriminazioni, termine chiave di tutta la trattazione, che partendo dal cognome acquista progressivamente una valenza sempre più vasta. Allo scopo si fa riferimento alla Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (fatta a New York il 18 dicembre 1979) e precisamente all'art. 16, ove si legge: "Gli Stati Parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio, e nei rapporti familiari e, in particolare, assicurano, in condizioni di parità con gli uomini: …

g) gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome".

… e i suoi limiti. La strada non percorsa

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E' stata questa una presa di posizione certamente forte, ma c'è da chiedersi se sia stata davvero risolutiva ed esaustiva, anzitutto nell'ambito di partenza, l'attribuzione ai figli di un cognome che rispetti la parità di genere.

La risposta, purtroppo, è no.

La madre, infatti, nella situazione attuale sconta una tradizione che mette al centro il ramo familiare paterno, maschile. La formazione dei cognomi è avvenuta o direttamente con meccanismo patronimico o indirettamente facendo riferimento a caratteristiche del capostipite: la città di provenienza, l'attività svolta, un aspetto fisico particolare; e così via. E non solo in Italia. Filippi vale Johnson, vale Ibrahimovic. Pertanto nel momento in cui il figlio Giuseppe di Marta Ferrari e di Mario Monti si chiamerà - in ipotesi - Giuseppe Ferrari Monti ancora una volta porterà traccia nel cognome di due soggetti maschili: il padre e il nonno materno con tutta la sua ascendenza, visto che Ferrari è posto a rammentare che all'origine di quella stirpe c'è stato un soggetto maschile che faceva il fabbro. La concreta personalità della madre resta invisibile.

Ora, affinché le considerazioni svolte non appaiano come un lusso accademico, è opportuno fornire e giustificare anche una soluzione, un modo di uscirne che rispetti davvero la parità di genere evitando discriminazioni. Bene, a parere di chi scrive si dovrebbe semplicemente dare la possibilità, per legge, di fare di quella madre un capostipite, conferendole il diritto di ispirarsi a quell'aspetto che le sembri maggiormente caratterizzante. Per la via più semplice si dovrebbe/potrebbe utilizzare un meccanismo matronimico, per cui quel bambino potrebbe chiamarsi Giuseppe Della Marta Monti.

Sembra stravagante e quindi improponibile? Perché mai? Non abbiamo già annoverato tra le nostre glorie Piero della Francesca? E' vero che la famiglia dei Franceschi era quella paterna, ma "la Francesca" era il modo in cui al tempo si indicava la madre. Esattamente come "la Gioconda" era la sposa di Francesco del Giocondo. Ma di questa genesi nessuno si ricorda.

Altri ambiti inesplorati da una tutela di facciata

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Tutto risolto, dunque, quanto meno sul piano delle osservazioni a commento? Francamente no. Perché una volta posto il problema, una volta dichiarata guerra ad "ogni forma di discriminazione nei confronti della donna" non ci si può accontentare di combatterne una sola. Altrimenti si rischia di finire sulla quarta cornice del Purgatorio, quella degli accidiosi, dove scontano la pena quanti hanno peccato per poco vigore.

Allo scopo conviene riprendere la Convenzione sopra citata e scorrere tutto l'articolo 16. Magari non dimenticando che gli stessi concetti furono ribaditi nel documento conclusivo della IV Conferenza mondiale sulle donne (Pechino, 1995).

Proseguendo, dunque, l'elenco sopra citato si legge ai vari punti:

c) gli stessi diritti e le stesse responsabilità nell'ambito del matrimonio e del suo scioglimento;

d) gli stessi diritti e le stesse responsabilità come genitori, indipendentemente dalla situazione matrimoniale, nelle questioni che si riferiscono ai figli …

f) i medesimi diritti e responsabilità in materia di tutela, curatela, affidamento ed adozione di minori, o simili istituti allorché questi esistano nella legislazione nazionale.

Ecco, dunque, che la giusta condanna degli squilibri assume una portata ben più ampia. E' evidente che se una Convenzione scritta a tutela delle donne sottolinea ripetutamente che le responsabilità dei genitori devono essere le stesse a prescindere dal rapporto di coppia si sta rivendicando la necessità che dopo la rottura di questo i padri debbano sacrificarsi nella stessa misura nella cura dei figli, rispettando il principio delle pari opportunità. Ovvero che i provvedimenti della magistratura devono dare disposizioni in tal senso. Giudizi come "la madre è posta in una situazione di asimmetria, antitetica alla parità, che, a priori, inficia le possibilità di un accordo" non può pensarsi valida solo per la questione del cognome, ma per ogni situazione che si riferisca a scelte ed oneri che riguardano i figli. Non a caso per il particolare disaccordo nella scelta del cognome si rimanda al comma III dell'art. 337 ter c.c., che tratta in generale le decisioni principali nell'affidamento condiviso. Fino ad enunciare un fondamentale principio di diritto:

"Senza eguaglianza mancano le condizioni logiche e assiologiche di un accordo." Come non vedere in esso il prerequisito fondamentale affinché possa efficacemente applicarsi una procedura ADR, a partire dalla mediazione familiare?

In definitiva, come non comprendere che l'interesse dei figli minorenni per la pace familiare e il suo diritto a un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e a ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da ciascuno di essi si salda perfettamente con la tesi antidiscriminatoria e a tutela delle madri che la Consulta qui svolge? "La proiezione sul cognome del figlio del duplice legame genitoriale è la rappresentazione dello status filiationis" e al contempo, "è il riconoscimento più immediato e diretto «del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali» (sentenza n. 286 del 2016)." Lucidissima la Corte nel momento in cui percepisce la matrice prettamente maschilista dell'attribuzione alle madri del compito di allevare i figli pressoché in solitudine, allude alla concezione patriarcale della famiglia e alla conseguente disparità di trattamento tra i genitori. Irresistibile, pertanto, per chi legge la tentazione di giustapporre a queste nette e radicali affermazioni - coerenti con l'intera tesi antidiscriminatoria svolta dalla Consulta - l'altrettanto tassativa e non occasionale posizione monogenitoriale della Suprema Corte: "Non è configurabile a carico del coniuge affidatario o presso il quale sono normalmente residenti i figli, anche nel caso di decisioni di maggiore interesse per questi ultimi, un obbligo di informazione e di concertazione preventiva con l'altro genitore in ordine alla effettuazione e determinazione delle spese straordinarie che, se non adempiuto, comporti la perdita del diritto al rimborso (Cass. 2127/2016)". Porle accanto e poi valutarne la compatibilità.

Concludendo, è certamente vero che la Corte Costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi su di una tematica più ristretta, ma i termini secondo i quali questa è stata ampiamente illustrata e le conclusioni alle quali è pervenuta fanno ritenere non rimandabile un prossimo appuntamento che valuti il modello squilibrato di affidamento oggi prevalente, che viola la parità di genere penalizzando soprattutto le madri, messo in pratica anche quando nessuna circostanza di fatto lo impone.


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