Per la Cassazione è responsabile del reato di omicidio colposo il medico che lascia sola l'infermiera nella fase di esecuzione della trasfusione con cui si sbaglia sangue

Medico responsabile della morte del paziente se sbaglia la trasfusione

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Responsabile penalmente per il reato di omicidio colposo il medico che, lascia da sola l'infermiera nella procedura di trasfusione con la quale viene somministrato al paziente un gruppo sanguigno incompatibile. Non rileva che in quel momento l'infermiera aveva meno pazienti da seguire del medico, la procedura doveva essere ripetuta dopo che il medico, proprio nella fare precedente all'inserimento della sacca nella cannula, si allontanava per controllare i monitor dei pazienti più gravi. Non rileva neppure che il paziente fossa già in condizioni critiche e avesse probabilità nulle di sopravvivenza, perché è indubbio che la somministrazione di un sangue incompatibile, ne abbia cagionato la morte, riducendo fortemente le seppur minime chances di sopravvivenza. Questo quanto emerge dalla sentenza della Cassazione n. 4323/2022 (sotto allegata).

La vicenda processuale

Un medico e un'infermiera vengono imputati per aver cagionato, in cooperazione tra loro, la morte di un paziente, perché con colpa generica, non hanno osservato "la procedura trasfusionale prevista dal protocollo ospedaliero adottato dalla ASL, effettuando così una trasfusione per 15 minuti di 50 ml di sangue di tipo "A Rh positivo" al paziente con gruppo sanguigno "0 Rh positivo."

Il Tribunale ha ritenuto sussistente il nesso di causa tra la condotta dei sanitari e il decesso del paziente, perché l'infusione di sangue di un gruppo incompatibile a quello del paziente, ha fatto precipitare la pur gravissima situazione clinica, eliminando così le limitate chances di sopravvivenza della vittima. Detta procedura, precisa poi il tribunale, doveva essere effettuata con la sorveglianza del medico, ma nel caso specifico l'imputato aveva lasciato l'infermiera a eseguire la procedura da sola.

La trasfusione non ha cagionato la morte

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Il medico nel ricorrere in Cassazione rileva che, dagli esami diagnostici eseguiti sul paziente nei giorni precedenti, era emerso un quadro complessivo gravissimo, con possibilità di sopravvivenza pari a zero e che pertanto la trasfusione non è stata la causa del decesso, tanto è vero che la mattina dello stesso giorno della commissione del presunto reato, è stata praticata la somministrazione forzata e manuale di aria.

Rileva poi, per quanto riguarda la trasfusione, che il controllo della sacca di sangue era stata effettuata alla presenza dell'infermiera, che doveva solo collegarla alla cannula inserita nel braccio del paziente, compito esecutivo che spettava alla stessa, che aveva solo due pazienti da seguire, mentre lui quel giorno ne aveva dieci e si era allontanato solo di qualche metro per controllare i monitor dei pazienti più gravi.

L'infermiera invece, nel ricorso in Cassazione rileva, come il medico, che il PM non ha accertato le reali probabilità di sopravvivenza del paziente, da giorni in condizioni gravissime e che, in ogni caso, il reato, per il tempo trascorso, deve considerarsi prescritto.

Responsabilità medica: principio di equivalenza delle cause

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La Cassazione dichiara i ricorsi inammissibili. Infondato il primo motivo di entrambi i ricorsi perché la ricostruzione della vicenda e la dimostrazione del nesso è stata argomentata impeccabilmente sia dal giudice di primo che di secondo grado. La Corte d'Appello in particolare ha ribadito che "non può porsi alcun dubbio sulla sussistenza del nesso causale tra le condotte d'infusione del sangue di un gruppo incompatibile e la morte del (paziente) in quanto la condotta errata ha trasformato in via immediata la situazione pur gravissima d'insufficienza mono organo in un'insufficienza multi organo che ha comunque inciso ed eliminato le concrete, sia pur limitate chances, di sopravvivenza del" paziente.

Per quanto riguarda il secondo motivo sollevato dal medico la Cassazione rileva che la Corte di appello ha precisato che la presenza del medico al momento della preparazione della trasfusione è richiesta non per evitare errori di valutazione, ma per ovviare a problematiche legate proprio all'esecuzione della procedura, in quanto "precauzione rivolta a ottenere proprio un controllo esterno sull'individuazione del paziente, della sacca e della compatibilità del gruppo sanguigno."

Nel caso di specie è emerso che la procedura è stata interrotta proprio prima dell'allacciamento della sacca alla cannula, situazione che richiedeva di ripetere la procedura proprio per evitare ciò che si è verificato, ossia lo scambio della sacca.

Nel richiamare le istruzioni ministeriali, la Cassazione evidenzia del resto come le stesse dispongano che:

  • "Un medico e un infermiere devono procedere ai controlli d'identità, corrispondenza e compatibilità immunologica teorica confrontando i dati presenti su ogni singola unità di emo-componenti con quelli della richiesta e della documentazione resa disponibile dal servizio trasfusionale, quali il referto di gruppo sanguigno e le attestazioni di compatibilità delle unità con il paziente. Tali controlli devono essere documentati.
  • L'identificazione va fatta al letto del paziente e dunque al momento della trasfusione."

Il medico quindi, come ha affermato correttamente la Corte di Appello, non doveva lasciare da sola l'infermiera a eseguire la trasfusione, proprio perché, come noto anche al Ministero, gli errori più frequenti nelle trasfusioni sono errori umani.

Il medico quindi è responsabile in quanto "in caso di condotte colpose indipendenti non può invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità e imprevedibilità."

Scarica pdf Cassazione n. 4323/2022

Foto: 123rf.com
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