Con un esito che sfida equità e buonsenso, la Cassazione sorvola sulle proprie precedenti tesi, sviluppate meno di un anno fa

Mantenimento figlio maggiorenne: l'ordinanza della Cassazione

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Anche se rispetto alle tesi ampiamente svolte dalla Suprema Corte (17183 del 14 agosto 2020) in merito al mantenimento dei figli di genitori separati divenuti maggiorenni si erano già avute pronunce contraddittorie, l'ordinanza 9700 del 19 aprile 2021 presenta ugualmente peculiarità che meritano uno specifico commento. Di regola, infatti, si è discusso della cessazione - automatica o no - del diritto del figlio divenuto maggiorenne di continuare a ricevere il mantenimento (Cass. 21752/2020), della sussistenza della condizione di "convivenza" (Cass. 23473/2020) e dell'onere della prova di non autosufficienza economica (Cass, 4219/2021). Sempre, quindi, intervenendo in situazioni di contestazioni dell'obbligo. Nella fattispecie, invece, il genitore onerato ha continuato senza muovere obiezioni a corrispondere il mantenimento limitandosi, a partire dal 2007, a versarlo direttamente al figlio divenuto maggiorenne. Non solo: lo ha fatto previo accordo scritto con il figlio medesimo e con il beneplacito del genitore che a suo tempo lo percepiva.

Questi, tuttavia, in un secondo momento, a distanza di 6 anni, nega di avere dato il nulla osta e rivendica il proprio diritto a ricevere quella contribuzione, reclamando la decisione di primo grado che aveva legittimato la corresponsione nelle mani del figlio e ricevendo il beneplacito della corte d'appello. Il genitore onerato si rivolge allora alla Suprema Corte, ma ne viene castigato, per motivi esclusivamente formali, e quindi si ribadisce che è tenuto a corrispondere all'ex coniuge le stesse somme già spese nel tempo per il figlio: più di 20.000,00 €. Vediamo come e perché.

I passaggi salienti della motivazione

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In sintesi, la Cassazione era chiamata a rispondere alle seguenti obiezioni (gli argomenti sia delle contestazioni che delle repliche sono ati): "L'obbligo di versamento dell'assegno di mantenimento del figlio … può essere modificato per concorde volontà delle parti, senza bisogno di un provvedimento giurisdizionale; … il titolare del credito di mantenimento è il figlio, una volta divenuto maggiorenne; … la legittimazione a domandare il pagamento dell'assegno di mantenimento del figlio maggiorenne spetta al genitore solo nel caso di inerzia di quest'ultimo".

Per il primo aspetto la Suprema Corte dà ragione alla Corte di Appello quando afferma che "qualsiasi accordo, anche tacito, tra le parti non poteva avere l'effetto di autorizzare il debitore a versare l'assegno nelle mani del figlio, in assenza di un provvedimento giurisdizionale che avesse modificato, su istanza di quest'ultimo, le statuizioni contenute nella sentenza

di separazione", che costituisce il titolo esecutivo. Dichiara, quindi, inammissibile "la sostituzione del creditore fissato dal titolo giudiziale con altro creditore". In altre parole, il raggiungimento della maggiore età è irrilevante rispetto a quanto già stabilito, fino a nuova sentenza.

Sorge il dubbio, a questo punto, alla Corte che possa applicarsi l'art. 1188 c.c. sul destinatario del pagamento visto che la creditrice aveva per sei anni accettato il pagamento nelle mani del figlio. Il dubbio viene, tuttavia, superato considerando che il ricorrente non aveva sostenuto che il figlio poteva essere considerato un delegato della madre - riconosciuta come creditrice, ma che si era preteso di sostituirla nella titolarità del credito. Né, d'altra parte, risultava che costei avesse indicato nel figlio il destinatario del pagamento.

Fornisce, poi, la propria interpretazione dell'art. 337 septies c.c., affermando che solo se c'è un intervento del giudice, dopo che il figlio è diventato maggiorenne, che disponga la corresponsione di un assegno, quell'assegno viene versato al figlio. Dunque attribuisce il versamento all'avente diritto solo all'interno di una fattispecie estranea al contesto in esame, ove in discussione era l'assegno stabilito in un giudizio precedente, a favore del figlio minorenne ma nelle mani del "genitore collocatario".

Motivi di perplessità

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Lasciando da parte - doverosamente, in sede di legittimità - la "sgradevolezza" intrinseca di una conclusione che evidentemente è in contrasto con l'innato senso di giustizia, sorgono ugualmente non pochi motivi di perplessità.

Anzitutto, se si dichiara obbligatoria l'osservanza del dispositivo emesso inizialmente fino a nuova pronuncia, non si comprende perché ciò dovrebbe valere solo per l'assegno di mantenimento e non per ogni sua parte: compresa - quale esempio non esaustivo - la frequentazione, per modificare la quale nessuno ha mai ritenuto di dover adire le vie legali. Quindi lo studente universitario dovrebbe attenersi a regole del tipo "starà presso il padre il martedì dall'uscita della scuola fino alle 19.30". Il che contrasta non solo con il buonsenso, ma anche con le prerogative intrinseche del cittadino maggiorenne; nonché con il diritto vivente.

Se ne conclude che per il figlio con la maggiore età vengono caducate automaticamente tutte le prescrizioni relative ai suoi spostamenti, ovvero alla sua permanenza presso l'uno e l'altro dei genitori. Con il che lo "pseudotitolo", di invenzione giurisprudenziale, di genitore "collocatario" (o, peggio, di genitore "convivente") perde completamente di significato.

D'altra parte, secondo prassi l'assegno di mantenimento qui in oggetto tipicamente include (v. uno qualsiasi degli innumerevoli "Protocolli per le spese straordinarie") le spese legate alla copertura dei bisogni essenziali, ovvero alla protezione dalla fame e dal freddo. Quindi nel momento in cui il figlio maggiorenne nell'arco di sei anni ha percepito il denaro destinato al proprio mantenimento è d'obbligo ipotizzare che abbia coperto necessità che alleggerivano gli oneri del genitore ex collocatario. Come minimo provvedendo al proprio abbigliamento. Altrimenti si dovrebbe pensare (seguendo Cass. 9700/2021) che abbia sistematicamente inviato la madre ad acquistargli i calzini, i pantaloni; e via dicendo. E si sarà attivato in proprio non solo e non tanto per senso di equità (nonché del ridicolo) quanto perché a ciò tenuto dall'art. 315 bis c.c. comma IV, che lo vincola alla collaborazione familiare, anche economica. Dunque la resistente, anche nella peggiore ipotesi di non partecipazione spontanea, ha avuto per sei anni la possibilità di richiamare il figlio ai suoi doveri e se non lo ha fatto (ipotesi di scuola) non può chiamarne altri a risponderne.

Ciò equivale a dire che ha tratto vantaggio dal versamento a mani del figlio, per cui anche se non si fa riferimento al primo comma dell'art. 1188 c.c. può farsi riferimento al secondo, in forza del quale, di per sé, "Il pagamento fatto a chi non era legittimato a riceverlo libera il debitore, se il creditore lo ratifica o se ne ha approfittato".

A ciò può aggiungersi una considerazione parallela, sotto il profilo sia di principio che di opportunità. Tipicamente il contributo del "collocatario" si esaurisce nel soddisfare i bisogni sopra descritti e nello svolgere compiti di fare, di cura e custodia della prole minorenne: parametro previsto esplicitamente al quinto punto del quarto comma dell'art. 337 ter c.c. Quindi, con la maggiore età del figlio la situazione si modifica radicalmente e si riducono automaticamente i suoi doveri: ovvero i suoi titoli di credito. Quindi, perché dovrebbe continuare a incassare la stessa somma? Ovvero: il passaggio alla maggiore età del figlio crea di per sé, automaticamente, un rapporto diverso tra i soggetti implicati: quindi perché non ci potrebbe essere un automatico aggiustamento della gestione delle risorse? Anzi, in assenza di questo non si potrebbe configurare un indebito arricchimento ai danni dell'altro genitore, ovvero, indirettamente, del figlio?

In effetti tutto lascia pensare che - probabilmente per motivi culturali - si stia facendo passare l'idea che il genitore "convivente" non è mai inadempiente. Il che non è affatto convincente. Vediamone un esempio, restando nel modello sostenuto dalla Suprema Corte. Ipotizziamo che l'ex collocatario tiranneggi il figlio maggiorenne nelle spese per l'abbigliamento. Certamente questi può rivolgersi al giudice affinché disponga che l'assegno sia a lui versato. Ma può anche decidere di non attivarsi (perché dovrebbe "far causa" a uno dei genitori e ciò lo imbarazza) e chiedere aiuto al genitore ex "non collocatario". Si tratta esattamente della stessa situazione che ha portato la Suprema Corte a sostenere il diritto del genitore ex collocatario ad attivarsi jure proprio e non ex capite filiorum per ottenere l'adempimento se il figlio non agisce. Eppure questa situazione non viene neppure ipotizzata e l'ex collocatario non corre rischi comunque si comporti. Per non parlare dello studente universitario fuori sede. Secondo Cassazione (ex pluris, 14241/2017) basta il periodico rientro presso uno dei genitori perché questi sia considerato "convivente" e quindi abilitato ad agire in giudizio contro l'altro se il figlio non si attiva. Pure entrambi i genitori sono tenuti a mantenerlo agli studi e a pagare gli oneri della vita quotidiana, quindi entrambi i genitori dovranno passargli un assegno. E se l'ex collocatario non lo fa?

E il problema si ingigantisce se si considerano le cosiddette "spese straordinarie", da concordare o no che siano: ma sempre tra i genitori, reciterà la intoccabile sentenza di merito. Cosa accade quando il figlio diventa maggiorenne? Se non ci si può accordare per modificare i ruoli del creditore e del debitore, ma si deve per forza passare attraverso il tribunale, finché non lo si è fatto (situazione ordinaria e prevalente) si dovrebbe continuare con un dialogo limitato ai genitori, tagliando fuori il figlio maggiorenne.

Ovvero lo stereotipo che lascia sotto custodia il figlio maggiorenne e che prevede un solo genitore onerato e potenzialmente inadempiente non trova fondamento nella vita reale.

Si conclude da questa complessa analisi che l'interpretazione che attribuisce la titolarità del credito al figlio maggiorenne non soffre di alcuno di questi inconvenienti. Quanto meno sul piano pratico, se il figlio dovrà provvedere direttamente e personalmente ai propri bisogni è logico e opportuno che abbia in mano il denaro che gli serve.

La relazione con i precedenti giurisprudenziali

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Passando adesso alla seconda parte dell'ordinanza e lascando da parte le pur evidenti ragioni del buonsenso, consideriamo l'art. 337 septies comma 1 c.c. Seguendone il ragionamento conclusivo, sembrerebbe che solo se il giudice dispone ex novo la corresponsione di un assegno questo vada versato al figlio: quindi, siccome non lo ha disposto, si prosegue con il vecchio regime, versando il contributo già disposto all'ex collocatario. Ma perché, ragionando in generale, si dovrebbe disporre il versamento di un nuovo assegno se il precedente dispositivo continua a valere? Non se ne vede il motivo, se non in presenza di rilevanti novità. Solo se, seguendo Cass. 17183 del 14 agosto 2020 (che neppure viene nominata, benché l'ordinanza sia del 13 aprile 2021), il precedente obbligo è automaticamente estinto con la maggiore età ha senso la previsione di un nuovo dispositivo; altrimenti il soggetto onerato lo sarebbe due volte per la stessa causa e, oltre tutto, il beneficiario conseguirebbe un illecito arricchimento. D'altra parte, se la tesi di Cass. 17183, ampiamente sviluppata, ha fondamento, nel caso di specie continuando a versare l'assegno come se avesse ricevuto dal figlio una documentata richiesta, quel padre non solo ha fatto il suo dovere: ha fatto di più.

Naturalmente questa analisi delle scelte paterne - ispirate alla sostanza dei fatti - anche sotto il profilo degli argomenti prodotti nel reclamo deve tenere conto della cronologia degli eventi. Il reclamo in Cassazione ha dato dell'art. 337 septies c.c. una più che plausibile lettura, ma ha preceduto nel tempo la svolta interpretativa del 2020, che quindi non poteva citare, ma che comunque successivamente l'ha confermata. Per questo non aveva senso che invocasse l'art. 1188 c.c., che fornisce una giustificazione "di ripiego" rispetto alla legittimazione diretta.

La medesima giustificazione non vale per la Suprema Corte che, pur potendo legittimamente prendere una posizione diversa, avrebbe dovuto motivare la propria presa di distanza. Ma soprattutto avrebbe dovuto chiarire il ragionamento attraverso il quale viene scavalcata l'esplicita indicazione del legislatore a favore della titolarità ed esigibilità del credito nella figura del figlio una volta divenuto maggiorenne, visto che il genitore già collocatario fino a quel momento ha gestito risorse destinate non a se stesso, ma al di lui mantenimento. In altre parole, anche volendo ignorare il ragionamento di Cass. 17183/2020, in una interpretazione sistematica il superamento della necessità di un nuovo intervento del giudice per modificare le disposizioni può rinvenirsi nella normativa stessa, che attribuisce al genitore presso il quale i figli vivano in misura prevalente la gestione delle risorse ad essi destinate solo in attesa che con la maggiore età acquistino la capacità di agire in proprio. Una sorta di mandato a termine.

Concludendo, pur osservando che valutazioni così profondamente difformi provengono da due diverse sezioni della Suprema Corte, resta il fatto che una comunicazione tra di esse dovrebbe pur esserci e soprattutto il rammarico per un esito discutibilmente fondato sul piano formale del diritto e sicuramente contrario all'etica della giustizia.


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