Il danno riconosciuto a coloro che sono rimasti coinvolti in processi di durata irragionevole tende verso il minimo e arriva troppo in ritardo

Spunti di riflessione sulla legge Pinto

[Torna su]

La Corte d'appello di Catanzaro - sezione Volontaria, in data 5 ottobre 2020, in accoglimento di un ricorso a firma del sottoscritto avvocato presentato ai sensi della legge Pinto per eccessiva durata del processo, ha depositato un decreto di condanna nei confronti del Ministero della Giustizia per una somma pari a 8.400,00 euro in favore di un malcapitato soggetto ricorrente, già socio di una società commerciale, dichiarata fallita con una sentenza del Tribunale di Paola del 16 dicembre 1992 e assoggettato a tale status da quasi 30 anni.

Il decreto (qui sotto allegato), divenuto esecutivo il 19 novembre 2020 per mancata opposizione del Ministero, rappresenta uno spunto interessante per una generale riflessione sulla legge Pinto, in quanto espressione di una tendenza della giurisprudenza a riconoscere il risarcimento per illegittima durata del processo nel suo ammontare minimo.

Ma andiamo con ordine.

Legge Pinto: a quanto ammonta il risarcimento

[Torna su]

Ricordiamo che la legge n. 89/2001, cd. legge "Pinto", sanziona, in armonia con le direttive della legislazione europea (C.E.D.U.), la lungaggine processuale che costituisce il vero nemico della giustizia italiana sia civile che penale, prevedendo un risarcimento nei confronti di coloro che sono rimasti "vittime" di tale lungaggine.

Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito a una sensibile riduzione del quantum del riconoscimento del danno.

Infatti, premesso che la formulazione originaria della legge non prevedeva una somma determinata per il risarcimento, le Corti d'appello, negli anni compresi tra il 2005 e il 2015, erano orientate a quantificare in circa 1.000 euro il ristoro per ogni anno di processo eccedente la ragionevole durata. Ciò con i dovuti adattamenti alla materia del giudizio presupposto: ad esempio, la somma liquidata dai giudici era superiore a quella suddetta per quanto atteneva, ad esempio, l'azione giudiziaria avente a oggetto il risarcimento danni derivante dalla circolazione stradale; un danno maggiore era inoltre riconosciuto in caso di procedure concorsuali, in particolare quelle fallimentari (per l'ovvia considerazione di una maggiore importanza del diritto ad esso sotteso).

Danno tra 400 e 800 euro per anno

Negli ultimi anni, tuttavia, il quantum debeatur è stato sensibilmente ridotto, con la previsione legislativa della sua individuazione in una somma oscillante da un minimo di 400,00 euro a un massimo di 800,00 euro per ogni anno di ritardo del processo imputabile all'amministrazione giudiziaria. Ci si riferisce, in particolare, a quanto stabilito dall'articolo 2 bis della legge n. 89/2001, introdotto dall'art. 1, comma 777, lett. d) della legge 28 dicembre 2015 n. 208 a decorrere dal 1° gennaio 2016.

Danno da illegittima durata del processo: tendenza al minimo

[Torna su]

Da tale punto di vista, una critica va rivolta alle decisioni dei giudici di merito.

Infatti, la suddetta disposizione normativa, al comma 2, stabilisce che "l'indennizzo è determinato...: tenendo conto dell'esito del giudizio presupposto, del comportamento del giudice e delle parti, della natura degli interessi coinvolti, del valore e della rilevanza della causa, valutati anche in relazione alle condizioni personali della parte".

Tuttavia, si assiste alla prassi della liquidazione del danno minimo, svuotando di contenuto, quindi, la norma.

Ad esempio, nella procedura fallimentare oggetto della pronuncia sopra citata, la Corte d'appello di Catanzaro ha quantificato il danno da eccessiva durata del processo nella misura minima di 400,00 euro per ogni anno di ritardo e ciò sebbene la natura degli interessi coinvolti fosse particolarmente elevata, trattandosi di un fallimento nel quale il valore della massa attiva (cioè i beni immobili sottratti alla disponibilità del soggetto dichiarato fallito e, poi, ricorrente del giudizio di equa riparazione) era originariamente pari a circa 3.105.000,00 euro (successivamente ridotto di poco a causa del deterioramento dei beni dopo anni di inutilizzo causato anch'esso dalla lungaggine processuale del giudizio presupposto per mancato esperimento della vendita).

Tempi di liquidazione del danno

[Torna su]

Il mancato raggiungimento della finalità della legge è accentuato, inoltre, dai tempi della liquidazione del danno in favore del danneggiato dalla lungaggine processuale.

Infatti, il riconoscimento del danno patrimoniale da parte delle Corti d'appello non viene, quasi mai, eseguito spontaneamente dall'amministrazione soccombente.

Anche se la riforma della legge "Pinto" prescrive un termine di sei mesi per il pagamento del danno già riconosciuto, spesso si è costretti ad adìre il giudice amministrativo per la soddisfazione del credito giudizialmente riconosciuto.

Anche la stessa azione esecutiva che dovrebbe conseguire al mancato pagamento del danno è, di fatto, preclusa, attesa l'impignorabilità di quasi tutti i capitoli di bilancio dell'ente soccombente (art. 5 quinquies).

E' inutile precisare, tuttavia, che la mancata liquidazione del danno è attribuibile all'organo amministrativo e, giammai, a quello giurisdizionale.

Ipotesi di modifiche e profili di incostituzionalità

[Torna su]

In conclusione, ad avviso di chi scrive sarebbe auspicabile l'abrogazione del testo legislativo di cui all'art. 5 sexies, comma 5, delle legge n. 89/2001 al fine di rendere immediatamente realizzabile il credito maturato giudizialmente e, quindi, effettivo il diritto soggettivo al risarcimento danni da lungaggine processuale per la parte che, oltre ad avere atteso lungamente l'esito di un giudizio che la ha vista coinvolta, è costretta ad attendere ancora per la soddisfazione del suo credito al risarcimento danni accertato per l'eccessiva durata del processo.

Peraltro, il medesimo comma 5, per come formulato, potrebbe rappresentare anche un'ipotesi di incostituzionalità della suddetta disposizione normativa, stabilendo un termine maggiore rispetto agli ordinari termini per agire esecutivamente nei confronti della P.A..

Ed inutile la precisazione di cui al comma 7: "prima che sia decorso il termine di cui al comma 5, i creditori non possono procedere alla esecuzione forzata, alla notifica dell'atto di precetto, né proporre ricorso per l'ottemperanza del giudicato" atteso che in ogni caso non si possono intentare azioni esecutive nei confronti della P.A. se prima non sia decorso il termine legislativamente previsto.

Salvatore Matera - Avvocato Cassazionista in Paola

Scarica pdf decreto Corte d'appello di Catanzaro 5 ottobre 2020

Foto: 123rf.com
Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: