Deve essere mandata assolta la compagna del soggetto accusato che coltiva e detiene marijuana per spaccio, che non contribuisce in alcun modo al reato

di Annamaria Villafrate - La Corte d'Appello di Roma, con la sentenza n. 6346/2019 (sotto allegata) respinge le richieste del difensore per quanto riguarda la posizione di uno degli imputati, condannati in primo grado per coltivazione e detenzione di marijuana a fini di spaccio. Accoglie invece la tesi difensiva della mera connivenza riferita alla compagna convivente, condannata per concorso nel reato. Condanna errata considerato che, come osserva la Corte la stessa non ha contribuito in alcun modo alla realizzazione dell'illecito da parte del compagno. La sua condotta passiva e inerte non ha in alcun modo rafforzato o agevolato il proposito criminoso del compagno, per questo deve essere assolta per non aver commesso il fatto.

Detenzione cannabis finalizzata allo spaccio

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Il Tribunale di Roma condanna due conviventi per il reato previsto dagli artt. 110 c.p. e 73 D.P.R. n. 309/1990 alla reclusione di un anno e alla multa di 2000 euro, con concessione delle attenuanti generiche alla contestata recidiva, pena diminuita per il rito prescelto, confisca e distruzione di quanto sequestrato. Per il primo giudice è risultata provata la detenzione finalizzata allo spaccio di 110 gr di marijuana e la coltivazione di 19 piante di Cannabis Indica, da cui era possibile ottenere più di 380 dosi.

Mera connivenza non punibile

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Il difensore degli imputati appella la sentenza di primo grado, chiedendone l'assoluzione per insussistenza del fatto.

Con riferimento alla posizione dell'uomo, la difesa evidenzia come lo stesso assumesse marijuana abitualmente, e che le 6/7 dosi ricavabili dalle piante fossero compatibili con il solo uso personale. In casa non sono stati trovati neppure contanti o materiale per il confezionamento, senza tenere conto delle discrete condizioni di vita del soggetto.

Per quanto riguarda invece la convivente, il difensore contesta la riconducibilità della sua condotta al concorso, trattandosi piuttosto di mera connivenza non punibile, mancando la prova si alcun ruolo della stessa nella coltivazione e nella custodia della sostanza.

Il difensore chiede anche di escludere la recidiva e di tenere conti della concessione delle attenuanti, della modesta quantità di THC, della non particolare gravità del fatto e della buona condotta degli imputati.

Non è punibile la compagna che non apporta alcun contributo all'illecito

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La Corte d'Appello di Roma, per quanto riguarda la posizione dell'imputato principale conferma la condanna del primo grado di giudizio. Per quanto riguarda invece la convivente la corte d'Appello rileva come nel corso del giudizio è emerso che la donna era estranea ai fatti, che l'appartamento era di sua proprietà e che "la determinazione delinquenziale dell'uomo è tale da non necessitare dell'apporto psicologico di complici per indurlo a commettere reati in tema di stupefacenti."

Per quanto riguarda la connivenza sostenuta dalla difesa la Corte richiama la giurisprudenza di legittimità, la quale ha precisato che: "integra la connivenza non punibile una condotta meramente passiva, consistente nell'assistenza inerte, inidonea ad apportare un contributo causale alla realizzazione dell'illecito, di cui pur si conosca la sussistenza, mentre ricorre il concorso nel reato nel caso in cui si offra un consapevole apporto - morale o materiale - all'altrui condotta criminosa, anche in forme che agevolino o rafforzino il proposito criminoso del concorrente, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito."

Analizzando i fatti, la versione fornita dalla donna durante l'interrogatorio e le menzogne da cui si desume la volontà di allontanarsi il più possibile dalla condotta dell'uomo, la corte conclude per la sua assoluzione, per non aver commesso il fatto.

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Scarica pdf Appello Roma n. 6346-2019

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