La diffamazione sui social: offendere l'altrui reputazione sui social network è un comportamento che può integrare il reato di diffamazione, peraltro aggravata

di Valeria Zeppilli - Quello dei social network è un mondo virtuale del quale fanno parte ormai quasi tutti, pieno di pregi ma foriero anche di molteplici rischi.

La possibilità di far sentire la propria voce a un numero indefinito di persone, ad esempio, ha reso assai diffuso il pericolo di porre in essere una condotta che, magari ritenuta innocua da chi la compie, in realtà si configura come penalmente rilevante. Ci si riferisce, in particolare, al rischio di rendersi colpevoli del reato di diffamazione, oltretutto aggravato.

Il reato di diffamazione

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La diffamazione è prevista dall'articolo 595 del codice penale, che punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro chi, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione.

In alcuni casi, la pena è ancora più severa.

Infatti, se l'offesa consiste nell'attribuire alla vittima, ingiustamente, un fatto determinato, si applica la reclusione fino a due anni o la multa fino a 2.065 euro, mentre se l'offesa è recata con il mezzo della stampa, con altro mezzo di pubblicità o con atto pubblico, la pena è quella della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.

Tutte le predette pene sono aumentate, poi, se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, a una sua rappresentanza o a un'autorità costituita in collegio.

Per approfondimenti vai alla guida: "Il reato di diffamazione"

Gli elementi del reato di diffamazione

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Dagli elementi che caratterizzano il reato di diffamazione si comprende bene che lo stesso può essere commesso anche tramite l'utilizzo dei social network.

Tale fattispecie delittuosa, infatti, è integrata quando vi è una comunicazione con più persone, ovverosia una pluralità di soggetti in grado di percepirla e comprenderne il significato, e tale comunicazione risulti coscientemente e consapevolmente offensiva nei confronti di un'altra persona.

La diffusività dei profili social

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Se, in un primo momento, gli interpreti avevano ritenuto che la diffamazione non potesse essere commessa a mezzo social network per l'assenza degli elementi caratterizzanti tale reato, da diversi anni è ormai pacifico che, in realtà, i profili social sono accessibili a una moltitudine di persone con la sola registrazione sul sito di riferimento e che, quindi, la loro diffusività rende configurabile il reato in parola attraverso i social network. Anzi, come chiarito in più occasioni anche dalla Corte di cassazione, in tali casi la diffamazione è addirittura aggravata dall'utilizzo di un mezzo di pubblicità.

Diffamazione aggravata sui social

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A tale ultimo proposito, si pensi, ad esempio, a quanto affermato nella sentenza numero 50/2017, ove si legge che "la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595 terzo comma cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone; l'aggravante dell'uso di un mezzo di pubblicità, nel reato di diffamazione, trova, infatti, la sua ratio nell'idoneità del mezzo utilizzato di coinvolgere e raggiungere una vasta platea di soggetti, ampliando - e aggravando - in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa, come si verifica ordinariamente attraverso le bacheche dei social network, destinate per comune esperienza ad essere consultate da un numero potenzialmente indeterminato di persone, secondo la logica e la funzione propria dello strumento di comunicazione e condivisione telematica, che è quella di incentivare la frequentazione della bacheca da parte degli utenti, allargandone il numero a uno spettro di persone sempre più esteso, attratte dal relativo effetto socializzante".

La pena per la diffamazione sui social

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Di conseguenza, chi offende l'altrui reputazione sulla propria bacheca social rischia di incorrere in una sanzione molto pesante, che consiste nella reclusione da sei mesi a tre anni o nella multa pari almeno a 516 euro.

Diffamazione sui social: come può difendersi la vittima

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Chi è vittima di una diffamazione tramite social network o ritiene di esserlo, quindi, può difendersi denunciando il comportamento presso le autorità. In particolare, occorre recarsi presso la procura, la polizia, i carabinieri o un altro ufficio delle forze dell'ordine e sporgere formale querela, descrivendo esattamente il fatto e, magari, dotandosi di documentazione idonea a comprovare l'offesa, onde evitare che il post sia poi cancellato e risulti difficile dimostrarne l'esistenza.

A questo punto, si apriranno le indagini e, se ne sussistono i presupposti, si avvierà il processo penale, nel quale la vittima può anche costituirsi parte civile e chiedere il risarcimento dell'eventuale danno subito in conseguenza della diffamazione.

Diffamazione su Facebook: sentenze

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La giurisprudenza svolge un ruolo molto importante nello stabilire quando, in concreto, una frase scritta sulla propria bacheca Facebook o su un altro social network possa ritenersi diffamatoria e quando no.

Ad esempio, la Corte di cassazione, nella sentenza numero 3148/2018, ha escluso che denunciare i prezzi troppo alti di un locale, accusandolo anche di truffare sul peso del cibo offerto possa essere diffamazione, trattandosi, piuttosto, di un comportamento riconducibile al diritto di critica (leggi: "Il commento su Facebook aspro e polemico non costituisce diffamazione").

Interessante è, poi, la sentenza numero 40083/2018, nella quale la Corte, dopo aver ribadito che "la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone" ha precisato che, a fronte di ciò, "l'eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive" non consente comunque di "mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria".

Infine, possiamo citare la pronuncia numero 34145/2019, ove si legge che "È vero che la recente giurisprudenza di legittimità ha mostrato alcune "aperture" verso un linguaggio più diretto e "disinvolto", ma è altrettanto vero che talune espressioni presentano ex se carattere insultante". Per i giudici "Sono obiettivamente ingiuriose quelle espressioni con le quali si "disumanizza" la vittima, assimilandola a cose o animali. Paragonare un bambino a un "animale", inteso addirittura come "oggetto" visto che il padre ne viene definito "proprietario", è certamente locuzione che, per quanto possa essersi degradato il codice comunicativo e scaduto il livello espressivo soprattutto sui social media, conserva intatta la sua valenza offensiva".

Valeria Zeppilli

Foto: 123rf.com
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