Per la Cassazione, non solo l'uomo ha violato gli obblighi cautelari impostigli, ma ha anche attuato una condotta maltrattante stante il carattere invasivo della comunicazione via social

di Lucia Izzo - Viola il divieto di comunicazione con le parti offese, l'imputato di maltrattamenti che invia loro messaggi vocali o su Facebook. Oltre una trasgressione agli obblighi imposti con la misura cautelare, tale atteggiamento è chiaramente espressivo della condotta maltrattante stante la potenziale diffusività del mezzo utilizzato e il carattere invasivo della comunicazione attraverso i mezzi telematici e i social.


Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 57870/2018 (qui sotto allegata), respingendo il ricorso di un uomo a cui il Tribunale del riesame aveva applicato la misura cautelare della custodia in carcere.

Il caso

L'uomo, nel dettaglio, era imputato del reato di cui all'art. 572 c.p. (maltrattamenti contro familiari e conviventi) commesso in pregiudizio della sua ex compagna e della figlia avuta con la donna.


Nei suoi confronti, il G.I.P. aveva disposto in prima battuta la misura cautelare del divieto di dimora e, altresì, del divieto di comunicazione a carattere telefonico e telematico con le persone offese, che un successivo provvedimento aveva esteso anche all'uso dei social network.


Il P.M., tuttavia, impugna tale provvedimento ritenendo inadeguata la misura non custodiale, stante alcuni gravi elementi emersi in seguito: l'uomo aveva, infatti, rivolto alla ex reiterate e gravi offese e minacce di morte, anche a mezzo telefono, con messaggi vocali indirizzati anche al legale della donna quale ritorsione per aver preso le difese della stessa. Inoltre, aveva pubblicato sui social network messaggi dal contenuto infamante nei confronti della vittima.


Stante l'inosservanza delle prescrizioni impostegli, il Tribunale del riesame ritiene dunque attuale e concreto il periculum criminis, ritenendo idonea la misura custodiale: in particolare, per i giudici la più grave misura cautelare si impone, non solo, per le minacce giunte anche l'avvocato di parte, ma soprattutto a causa dei messaggi inviati su Facebook, con immagini fotografiche, che denotavano disprezzo totale per le prescrizioni a cui l'imputato era sottoposto e assoluta incapacità di rispettare le stesse.

Viola il divieto di comunicazione l'imputato che contatta la parte offesa su Facebook

Una decisione avvalorata dalla Corte di Cassazione secondo cui la trasgressione al divieto di comunicazione con le parti offese, inglobato nel provvedimento di divieto di dimora, autorizza la configurazione di una delle manifestazioni dei maltrattamenti aggravati, potendo la prova di esse desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell'agente che ha rivolto alle vittime messaggi vocali minacciosi e messaggi dai contenuti infamanti pubblicati su Facebook.


Questi ultimi, secondo gli Ermellini, costituiscono documenti e mezzo invasivo di comunicazione, che oltrepassa la vicinanza fisica con la vittima e permane come atteggiamento inquietante ancor più presente nella sfera di libertà e autonomia del destinatario. Si caratterizza, sul piano della interazione tra mittente e destinatario, per la incontrollata possibilità di intrusione, immediata e diretta, del primo nella sfera delle attività del secondo (cfr. Cass n. 47195/2015 e 38681/2017).


Priva di fondamento appare la considerazione difensiva secondo cui l'uomo non avrebbe mai violato nel merito le prescrizioni imposte, non avendo mai intrattenuto contatti fisici con i propri familiari. Secondo il Collegio, proprio l'uso dei mezzi telematici, usati dall'uomo per postare su Facebook immagini fotografiche non consentite concretanti grave minacce, costituisce, oltre che una trasgressione degli obblighi imposti con la misura cautelare, espressione della condotta maltrattante.


Con ciò, conclude la Corte, il ricorrente dimostra di non essersi confrontato con il provvedimento impugnato dal quale risalta la potenziale diffusività del mezzo utilizzato dal ricorrente e il carattere invasivo della comunicazione alla quale il destinatario non può sottrarsi se non disattivando la connessione, con conseguente lesione, in tale evenienza della libera di comunicazione e corrispondente alterazione della quiete e tranquillità psichica, comprensibilmente turbate da esasperazione e spavento. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.


Scarica pdf Cass., VI pen., sent. 57870/2018
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