L'Italia non ha aderito al Global Compact for Migration. La domanda è: la sua sottoscrizione avrebbe o no comportato erosione della sovranità in materia di immigrazione e gestione delle frontiere?

di Davide Mura - E' notizia di oggi che il Parlamento ha rinviato sine die il voto sull'adesione del nostro paese al Global Compact for Migration, con il quale l'ONU intende affrontare il problema delle migrazioni, attraverso politiche integrate e coordinate fra i paesi aderenti, le strutture internazionali e le ONG che si occupano di flussi migratori.

L'accordo è stato firmato a Marrakech lo scorso 11 dicembre, dopo qualche anno di gestazione. L'Italia non vi ha partecipato e non ha aderito, così come non vi hanno aderito altre nazioni, tra cui gli Stati Uniti e l'Australia. In Europa, non vi hanno aderito, tra le altre, l'Ungheria e la Polonia.


Dalla Dichiarazione di New York al Global Compact for Migration

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Prima di affrontare però la problematica sull'impatto che potrebbe avere questo accordo sulla sovranità italiana, qualora il nostro Governo dovesse decidere di sottoscriverlo, è necessario ripercorrere seppure sinteticamente i passaggi che hanno portato alla sua nascita.

Il Global Compact for Migration è un accordo nato a margine del meeting di alto livello tenutosi a New York il 16 settembre 2016, finalizzato ad affrontare le problematiche globali sui flussi migratori. In tale contesto è stata adottata la Dichiarazione di New York, nella quale si prende atto delle presunte problematiche globali legate all'immigrazione, sia sul fronte di diritti e della dignità umana, sia sul fronte dell'assistenza umanitaria e sia sul fronte della lotta alla xenofobia e al razzismo. Soprattutto però, in ordine alla possibilità di sviluppare principi e linee guida sul trattamento dei migranti e il controllo dei confini.

Proprio per questo nel meeting si è convenuto di siglare un accordo il cui scopo è creare una governance mondiale per gestire il flusso migratorio in modo integrato, per garantire che il fenomeno si svolga in modo regolare, sicuro e ordinato. Il Global Compact for Migration, appunto, siglato a Marrakech il 11 dicembre 2018.

Chi ha sottoscritto l'accordo

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L'accordo non è stato sottoscritto da tutti i paesi del globo. In particolare, non lo hanno sottoscritto diverse nazioni di prima piano, tra le quali spiccano gli Stati Uniti (membro permanente ONU), l'Australia, l'Ungheria, la Polonia, la Bulgaria, la Svizzera, l'Austria e l'Italia.

Le ragioni per le quali queste nazioni non hanno sottoscritto l'accordo, sono legate ai timori che la sua sottoscrizione possa comprimere, nel tempo, la sovranità nelle politiche migratorie e nella gestione delle frontiere, anche perché il Global Compact in questi termini - come è facile intuire - non fa alcuna distinzione sostanziale tra migrazione legale e illegale, e tra rifugiati e migranti economici.

Il contenuto dell'accordo

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Il Global Compact for Migration è un accordo il cui scopo - si è detto - è quello di strutturare una governance mondiale che possa coordinare gli Stati nella gestione dei flussi migratori, affinché questi si svolgano in modo regolare, ordinato e sicuro. Perché, come afferma l'accordo, «nessuno Stato può affrontare da solo» il fenomeno migratorio.

In questi termini, essenzialmente, il Global Compact sancisce una serie di principi obiettivo, dedotti dalla Dichiarazione di New York:

  • La protezione della dignità dei migranti, prescindendo dal loro status.

  • La condanna della xenofobia e del razzismo connessi ai flussi migratori.

  • La definizione di principi e linee guida sul trattamento dei migranti in condizioni di vulnerabilità.

  • Il supporto dei paesi nel salvataggio, nella ricezione e nell'accoglienza dei rifugiati e migranti.

  • L'integrazione dei migranti attraverso l'assistenza umanitaria e i programmi di sviluppo, indirizzando i bisogni e le capacità dei migranti e quelle delle comunità che li accolgono.

Già questi principi, che sono solo un sunto di quelli definiti nel paragrafo 16 dell'Accordo, suggeriscono come gli spazi di azione degli Stati vengano notevolmente ridotti in un contesto nel quale l'accordo "impone" agli Stati aderenti una gestione dei «confini in modo integrato, sicuro e coordinato».

Non solo. Al di là della retorica e della genericità che contraddistingue il Global Compact, gli obiettivi e le modalità attraverso le quali le finalità ivi previste dovrebbero essere perseguite risultano in alcuni casi vaghe, in alcuni opache e in altri piuttosto perentorie. In particolare, nonostante più volte si faccia intendere che gli Stati saranno comunque liberi di determinare le più opportune politiche migratorie poiché l'accordo «rispetta la sovranità degli Stati e i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale», vengono definiti una serie di paletti affinché queste politiche siano stabilite in conformità dell'accordo, delle sue finalità, dei suoi principi e in coordinazione con gli altri Stati, istituzioni sovranazionali e organismi internazionali, spesso di natura privata (e dunque che perseguono logiche di interesse privato).

Il Global Compact è legalmente vincolante?

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Qui però non si intende offrire una chiave di lettura politica sul Global Compact for Migration, quanto determinare se questi - in ragione dei principi e delle finalità di cui si è fatto cenno - possa effettivamente erodere la sovranità statale in materia di immigrazione e gestione delle frontiere.

Sul punto è bene dire primariamente che l'accordo di Marrakech non è legalmente vincolante per gli Stati firmatari. In altre parole, non è "cogente" come la Convenzione di Ginevra del 1951. Pertanto gli Stati che lo hanno sottoscritto non sono formalmente tenuti a rispettarlo e non sono tenuti ad attuare le sue direttive. E del resto, è lo stesso accordo a sottolinearlo quando afferma che «il Patto globale è un quadro di cooperazione giuridicamente non vincolante che riconosce che nessuno Stato può affrontare la migrazione da solo a causa della natura intrinsecamente transnazionale del fenomeno».

Ma che non sia giuridicamente vincolante, non significa che non lo sia in termini ampiamente generali sul piano della persuasione politica, delle pressioni morali, dei condizionamenti diplomatici e persino sul piano dei collaterali vincoli internazionali, rientrando l'accordo di Marrakech nell'alveo di quello che - come si vedrà più avanti - viene definito del soft law o del "pre-diritto", il cui scopo è discriminare tra una condotta legalmente accettata a livello internazionale e una condotta che non lo è (v. infra).

Prima però di occuparcene è necessario esaminare, seppure in sintesi, come il nostro ordinamento recepisce il diritto internazionale.

Il diritto internazionale nel quadro costituzionale

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La nostra Carta Costituzionale dedica essenzialmente due articoli al diritto internazionale: l'art. 10 e l'art. 11. Ai quali deve però aggiungersi il primo comma dell'art. 117, là dove si afferma che le leggi italiane devono rispettare i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Sicuramente, per quanto qui interessa, il più rilevante è l'art. 10, poiché la norma in esame afferma che «l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» e inoltre «la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».

L'art. 10 dunque introduce il principio dell'adattamento automatico, con il quale si intende «adeguare il diritto interno italiano a quelle norme di diritto internazionale (principi, consuetudini generali) che, in quanto rispondenti alle esigenze ed agli interessi di tutti gli Stati, sono generalmente riconosciute nell'ambito della Comunità internazionale»[1].

Davanti al disposto anzidetto, il problema è capire se: a) gli accordi internazionali non vincolanti rientrino nell'operatività del pacta sunt servanda ex-art. 26 Convenzione di Vienna; b) se gli accordi internazionali non vincolanti rientrino nell'operatività dell'art. 10 Cost.

Quanto al primo punto - il punto a) - in dottrina esiste un orientamento consolidato che afferma che gli accordi non giuridicamente vincolanti non rientrano nell'ambito dei patti strettamente vincolanti per gli Stati che eventualmente vi aderiscano, poiché la loro adozione è finalizzata a evitare responsabilità internazionali, qualora gli Stati non si conformino a essi[2].

Quanto al secondo punto - il punto b) - esiste un orientamento generale e prevalente che afferma che gli accordi internazionali vincolanti o meno, facendo parte del diritto internazionale pattizio, non rientrano nell'operatività dell'art. 10, comma 1, ciò poiché questa non era l'intenzione espressa in Assemblea Costituente, quando si definì il contenuto dell'art. 10, e poi perché il nostro ordinamento - per quanto riguarda il recepimento del diritto internazionale pattizio - prevede un meccanismo di adattamento diverso, previsto agli artt. 80-87 Cost.[3].

La questione, per quanto riguarda l'immigrazione, però si complica qualora si esamini il comma 2, là dove viene affermato che la «condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali». Premesso che la legge in esame è quella statale per via di quanto viene disposto nell'art. 117, comma 2, qui evidentemente emerge un problema ulteriore per quanto concerne lo status dello straniero, in ordine alla conformità dell'ordinamento interno al diritto internazionale, poiché la disposizione fa riferimento alle norme e ai trattati internazionali.

Dunque le questioni sono due: la legge deve conformarsi ai trattati, anche se non ratificati ai sensi degli artt. 80-87 Cost.? La legge deve conformarsi anche agli accordi internazionali non vincolanti sul piano internazionale?

In realtà come afferma qualche autore, le questioni non sembrano appassionare la dottrina[4], ma è chiaro che le risposte sono fondamentali per comprendere se gli accordi internazionali, benché non vincolanti, possano incidere in modo significativo sul diritto interno in ordine allo status dello straniero. Vero è però che qualcosa si può dire in proposito. In primo luogo, si deve accedere alla tesi secondo la quale il comma 2, quando fa riferimento alle norme internazionali, semplicemente fa rinvio a quando disposto nel comma 1; perciò tali sono solo le norme di carattere consuetudinario. In secondo luogo, quando si riferisce ai trattati internazionali, presuppone che tali siano solo quelli vincolanti sul piano internazionale che non solo siano stati sottoscritti dall'Italia, ma anche ratificati ai sensi degli artt. 80-87 Cost. Anche perché la conformità di una legge al trattato può essere valutata solo e se la norma di quel trattato sia stata recepita e sia dunque disponibile per l'interprete e il giudice nazionale. Sicché se da una parte un accordo non vincolante sul piano internazionale non potrebbe (di per sé) in alcun modo ingenerare vincoli interni maggiori di quelli esterni, dall'altra proprio perché la norma internazionale non è trasposta in una legge interna, non potrebbe innovare in alcun modo il diritto interno.

Il Global Compact come regola di soft law

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Stabilito l'ambito della portata operativa dell'art. 10 Cost. in ordine agli accordi e ai trattati internazionali e altresì escluso che in generale un accordo non vincolante possa incidere sull'ordinamento interno, è opportuno fare una considerazione ulteriore in merito, sul piano della soft law e dunque della possibilità che un accordo internazionale non vincolante possa però creare un contesto internazionale e interno tale che i suoi principi e le sue regole diventino latamente vincolanti e siano dunque utilizzate come paradigmi giuridici nella valutazione della legalità di una norma interna, fatti salvi i principi supremi costituzionali (i cosiddetti controlimiti).

La soft law internazionale si configura esattamente come un sistema "metagiuridico" dove interagiscono elementi di pressione politica e morale, raccomandazioni non vincolanti, accordi e principi che mirano a definire a livello internazionale standard comportamentali e procedurali nelle materie oggetto dei loro contenuti. Lo scopo della soft law, dunque, è creare un contesto internazionale ideale nel quale innestare nel tempo norme giuridiche vincolanti per gli Stati nelle materie interessate, affinché le stesse siano sottratte alla competenza statale e diventino dunque competenza internazionale. Lo soft law rappresenta pertanto la fase iniziale di un processo desovranizzante o internazionalizzante, nella quale gli Stati, in determinati campi, pur non volendo vincolarsi o vedersi sottratta la competenza, ritengono che in una determinata materia sia necessaria una proceduralizzazione latamente internazionale. Per questa ragione stipulano accordi non vincolanti che rientrano, giocoforza, nell'ambito della soft law, poiché il loro rispetto è lasciato alla volontà di conformarvisi. Qualora lo facciano, le regole inserite negli accordi di soft law, salvo non vengano poi trasposte in trattati vincolanti, diventano, nel tempo, norme generalmente riconosciute e dunque norme consuetudinarie che assumono una portata vincolante originaria, determinando illeciti internazionali qualora non venissero rispettate.

L'accordo di Marrakech definisce un quadro giuridico di soft law particolarmente rigoroso e pregnante[5], poiché seppure autoproclamatosi non vincolante, esso - inusualmente dettagliato nei principi, negli obiettivi e negli strumenti nazionali e internazionali per conseguirli - potrebbe incidere con particolare efficacia in tutti quegli ordinamenti - come il nostro - che prevedono norme di "esecuzione in bianco"[6] qualora le direttive dell'accordo diventino particolarmente osservate e considerate nel tempo come vincolanti ed espressione di una pratica legale condivisa e universale nella gestione dei flussi migratori (formandosi cioè quella che viene definita come opinio iuris ac necessitatis). Soprattutto perché l'accordo di Marrakech è conseguenza diretta della Dichiarazione di New York, la quale, a sua volta, richiama espressamente i principi della Carta delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (v. § 5, pag. 2, Dichiarazione di New York).

Se così è, sembrerebbe che la mancata sottoscrizione dell'accordo da parte dell'Italia non possa del tutto escludere che un giorno i principi e le direttive contenute nel Global Compact non possano incidere nel diritto interno attraverso il meccanismo del recepimento automatico ex-art. 10 Cost., limitando ulteriormente la sovranità statale negli ambiti in cui essa opera. Ma è altresì vero che questa possibilità è tanto reale quanto la generalità degli Stati vi si conformino costantemente nel tempo, rispettando i contenuti precettivi dell'accordo e contribuendo in questo modo a formare quella che viene appunto chiamata la opinio iuris ac necessitatis.

Conclusioni

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Non è possibile approfondire ulteriormente l'argomento. Quello che qui è opportuno sottolineare è che al di là di come la si pensi sul Global Compact for Migration, l'accordo internazionale, per la sua particolarità, per il suo dettaglio, per la previsione di norme operative e di raccordo nelle politiche migratorie, per il ruolo che verrebbe svolto dalle organizzazioni internazionali (anche di carattere privato) nella vigilanza, nell'intervento e nel concorso nella gestione dei flussi migratori, comporta ineluttabilmente - pur non essendo generalmente vincolante - un pericolo concreto di forte e progressiva erosione di sovranità statale in materia di controllo delle frontiere e di definizione dello status giuridico del migrante. Un processo questo che si concretizzerebbe nel tempo attraverso la maturazione della norma consuetudinaria.

Proprio per queste ragioni, si può concludere che seppure sia vero che la sottoscrizione non avrebbe, almeno nell'immediato, pregiudicato la sovranità statale in materia di immigrazione e di gestione delle frontiere, potendola certamente pregiudicare in futuro, è altresì vero che la mancata sottoscrizione, soprattutto nel solco di altre nazioni di primo rilievo sul piano internazionale come gli Stati Uniti, la Svizzera, l'Austria e l'Australia, si pone in una posizione di rottura e di forte contrapposizione internazionale rispetto al processo di trasformazione della soft law contenuta nell'accordo di Marrakech in norma internazionale vincolante, contribuendo a salvaguardare, nel tempo, la competenza statale sulle frontiere e sui filtri di accesso al territorio ed escludendo, così, quelle ingerenze esterne (e in particolare quelle di carattere privato) che rischiano di neutralizzare i processi democratici nazionali in un settore - quello immigratorio - di forte interesse nazionale. Soprattutto però, la mancata firma, ostacola la possibilità che la giurisprudenza costituzionale - attratta magari da qualche tesi massimalista e minoritaria[7] - possa, tramite il meccanismo previsto all'art. 10 Cost., anche nel breve termine, ritenere che i principi e le direttive contenute nel Global Compact for Migration - quand'anche non vincolanti - rappresentino un paradigma di valutazione della costituzionalità delle norme interne in materia di immigrazione e di accesso al territorio nazionale.

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[1] Così T. Martines, Diritto Costituzionale, Giuffè, Milano 1994, pag. 105.

[2] Tuttavia è anche vero che esistono opinioni che rilevano comunque che tali accordi, al di là delle pressioni politiche che potrebbero ingenerare, potrebbero incidere sulla competenza degli Stati nelle materie oggetto degli accordi, nel senso che tali Stati non potrebbero comunque invocare la competenza domestica in quelle materie. In M. Giuliano, T. Scovazzi, T. Treves, Diritto Internazionale, Parte Generale, Giuffrè, Milano 1991, pag. 320.

[3] A. Vignudelli, Diritto Costituzionale, Giuffrè, Milano 2010, pag. 374-375.

[4] Così S. M. Ciconetti, Le fonti del diritto italiano, Giappichelli, Torino 2017, pag. 41.

[5] Così, F. Maimone in Global compact for safe, orderly and regular migration: la grande pianificazione e il diritto internazionale privatizzato, articolo pubblicato il 9 dicembre 2018 sul sito web curato da L. Barra Caracciolo, orizzonte48.blogspot.com, rinvenibile al seguente link: https://bit.ly/2T32wWm

[6] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova 1969, pagg. 560-562.

[7] Per un quadro generale sull'interpretazione dell'art. 10, v. T. Salvino, L'apertura delle costituzioni degli Stati membri dell'UE al diritto comunitario e a quello internazionale, Giappichelli, Torino 2017 (e-book).


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