La falsa denuncia di smarrimento del documento d'identità integra il reato di falsità ideologica privata che non richiede il dolo specifico

di Annamaria Villafrate - La recente Cassazione n. 33848/2018 (sotto allegata), che si è pronunciata su un caso di falsa denuncia di smarrimento del documento d'identità, è lo spunto per analizzare il reato di falsità ideologica privata, per integrare il quale è sufficiente l'elemento psicologico del dolo generico.

Indice:

Il reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico

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L'art. 483 c.p. prevede che: "Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni. Se si tratta di false attestazioni in atti dello stato civile la reclusione non può essere inferiore a tre mesi."

La dottrina maggioritaria estende la nozione di atto pubblico a tutti i documenti redatti da pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni, compresi gli atti interni e le comunicazione tra uffici. Perché si configuri il reato, la falsa attestazione del privato deve essere:

  • scritta o orale;
  • resa mentre il pubblico ufficiale redige un atto pubblico o che ha il dovere di redigere;
  • relativa a una verità che il privato ha l'obbligo, previsto da una norma giuridica, di riferire al pubblico ufficiale e che deve risultare dall'atto destinato a contenere la sua dichiarazione.

Falsa dichiarazione di smarrimento della carta d'identità

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La recente Cassazione n. 33848/2018 (sotto allegata), chiamata a pronunciarsi su un ricorso di una donna orientale, condannata in primo grado e in appello per il reato di falsità ideologica di cui all'art. 483 c.p, coglie l'occasione per fare chiarezza sugli elementi costitutivi di questo illecito.

La donna, aveva "attestato falsamente ad un pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità; in particolare, l'imputata aveva dichiarato in apposita denuncia orale di aver smarrito la propria carta d'identità", mentre in giudizio era emerso che il documento era stato ritirato dalla Polizia di Stato "contestualmente alla notifica del decreto di rigetto del rinnovo del permesso di soggiorno".

Il ricorso in Cassazione

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Condannata nei primi due grado di giudizio, la donna ricorre alla Suprema Corte denunciando le conclusioni della corte d'appello perché a suo dire, il giudice, ravvisando erroneamente "un intento fraudolento, consistente nella finalità di ottenere un duplicato del proprio documento", non ha considerato che, a causa della lingua, non si era resa conto che la carta le era stata ritirata contestualmente alla notifica del decreto rigetto del rinnovo permesso di soggiorno.

Per integrare la falsità ideologica è sufficiente il dolo generico

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Sul primo motivo di ricorso la Cassazione ritiene logica e coerente l'affermazione del giudice di secondo grado, secondo cui, poiché la carta d'identità era stata personalmente ritirata alla donna dagli operanti della Polizia di Stato "l'imputata non poteva dunque non essere a conoscenza di tale circostanza nel momento in cui (in data 9/12/11) dichiarava lo smarrimento, in data e luogo sconosciuti, di detto documento".

La Cassazione ha quindi ritenuto corretto che la donna "avesse la piena consapevolezza e volontà della falsità delle proprie dichiarazioni. D'altronde il dolo integratore del delitto di falsità ideologica di cui all'art. 483 cod. pen. è costituito dalla volontà cosciente e non coartata di compiere il fatto e nella consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero (Sez. 2, n. 47867 del 28/10/2003; Sez. 5, n. 315 del 25/03/1968); non è dunque richiesto il dolo specifico, sicché i giudici di merito non erano tenuti a dimostrare positivamente quale fosse la finalità perseguita in concreto dall'imputata (ravvisata dalla Corte territoriale nell'ottenimento di un duplicato del documento d'identità)".


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