Per la Corte, la detenzione in carcere o in struttura separata non può contrastare con il generale dovere di evitare trattamenti inumani o degradanti. Sì dunque al differimento della pena in carcere per il mafioso affetto da grave patologia psichica

di Lucia Izzo - Nell'analizzare l'istanza del detenuto volta al differimento della pena (anche sotto forma di detenzione domiciliare) il giudice è tenuto a valutare l'interazione tra la patologia fisica e la patologia psichica di cui è affetto l'istante, tale da determinare una malattia multifattoriale non fronteggiabile in carcere o tale da rendere l'espiazione della pena contraria al senso di umanità.

Se è verificata la sussistenza di tale aspetto, il giudice dovrà disporre il differimento (obbligatorio o facoltativo) della pena o la detenzione domiciliare in quanto mantenere il soggetto portatore di seria patologia psichica in carcere, anche in una struttura separata, non dovrà contrastare con il generale dovere di evitare trattamenti inumani e degradanti, che, essendo assoluto, va applicato quali che siano i comportamenti della vittima e il reato commesso.


Tanto si desume dalla sentenza n. 15531/2018 (qui sotto allegata) con cui la Corte di Cassazione, prima sezione penale, si è pronunciata sul ricorso di un uomo, detenuto per fatti di rilevante gravità (tra cui il delitto di associazione mafiosa) con residuo pena superiore a quattro anni.

La vicenda

Questi aveva chiesto al Tribunale di Sorveglianza di Roma il differimento della pena, anche nella forma della detenzione domiciliare, per grave infermità.


Il giudice, tuttavia, aveva rilevato come le sue patologie fossero di natura essenzialmente psichiatrica: il detenuto soffriva di una complessiva difficoltà di adattamento al regime detentivo, con insorgenza di insonnia e stati d'ansia, anche somatizzata; aveva, inoltre, tentato il suicidio e, a seguito di tale episodio, era stato sottoposto a una terapia farmacologica.


L'ultima visita psichiatrica aveva evidenziato una "grave depressione maggiore ricorrente in paziente con screzio psicotico in borderline ex tossicodipendente" con indicazione di necessario programma riabilitativo in un reparto di tipo psichiatrico.


Per il giudice a quo non era poteva applicarsi né la previsione di cui all'art. 147 c.p., che prende in esame la condizione di infermità fisica e non psichica, e neppure (ex art. 148 c.p.) il ricovero presso un ospedale psichiatrico giudiziario, essendo sopravvenuta la disciplina legislativa che ha chiuso tali strutture con affidamento parziale dei compiti, loro spettanti, alle REMS.

Responsabilità penale e patologia psichica: la riforma

Pronunciandosi sul ricorso del detenuto, la Corte di Cassazione prende le mosse dal complesso quadro normativo venutosi a determinare con la riforma del trattamento della patologia psichica "incidente" sulla penale responsabilità, a opera della quale gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari sono stati sostituiti da strutture residenziali a "esclusiva gestione sanitaria" (le REMS).


Il superamento degli OPG, spiega dettagliatamente il Collegio, è stato accompagnato dalla realizzazione, all'interno degli Istituti Penitenziari, di apposite Sezioni denominate "Articolazioni per la tutela della Salute Mentale" dedicate all'accoglienza dei detenuti appartenenti a specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati negli OPG per ricevere le necessarie cure e assistenza psichiatriche.


Il quadro attuale ha realizzato un trattamento sensibilmente differenziato tra il soggetto portatore di patologia psichica "incidente" sulla capacità di intendere o di volere al momento del fatto (che viene oggi collocato in struttura residenziale a prevalente vocazione trattamentale di tipo sanitario) e il soggetto portatore di grave patologia psichica sopravvenuta durante l'esecuzione, che, non potendo essere accolto nella struttura esterna di nuovo conio, né collocato in quella non più esistente, resta in stato detentivo, affidato al reparto sanitario interno al luogo di detenzione.


Tuttavia, spiegano gli Ermellini, la condizione patologica del detenuto, per la sua consistenza e gravità, può porsi come fattore teso a compromettere il fondamento effettuale della pena, a causa della incapacità del destinatario di comprenderne la finalità e di partecipare al percorso rieducativo, sì da sforare potenzialmente nel trattamento degradante.

Detenzione e patologie psichiche: vanno rispettati i valori costituzionali e convenzionali

La Corte si chiede, quindi, se l'istituzione delle Sezioni interne al circuito penitenziario per la tutela della salute mentale realizzi o meno una risposta compatibile con i valori costituzionali e convenzionali o se la strada da percorrere sia quella dell'ampliamento di operatività della detenzione domiciliare "speciale" a fini essenzialmente terapeutici.


Infatti, la detenzione carceraria, in qualunque forma si realizzi, ha connotati costituzionali molto precisi e stringenti: la finalità primaria della pena (art. 27, co. 3, Cost.) resta quella rieducativa e, in tale ambito, vi è espresso divieto di infliggere al condannato trattamenti contrari al senso di umanità.


Si tratta di un divieto previsto e rafforzato anche da strumenti giuridici sovranazionali, quali la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e la Carta dei Diritti Fondamentali dell' Unione Europea.

No alla detenzione in carcere del malato psichico se degradante e contraria al senso di umanità

Tanto ribadito, gli Ermellini evidenziano come la protrazione della detenzione del soggetto portatore di seria patologia psichica, pur in struttura separata e destinata a realizzare un trattamento sanitario, in tanto risulta compatibile con i principi fondamentali in quanto sia assicurata l'effettività del trattamento sanitario e non contrasti con il generale dovere di evitare trattamenti inumani o degradanti.


Il divieto della tortura o delle pene o trattamenti disumani o degradanti è assoluto, spiegano gli Ermellini, quali che siano i comportamenti della vittima, trovando applicazione anche nelle circostanze più difficili, come la lotta contro il terrorismo e il crimine organizzato. In sostanza, la natura del reato ascritto al ricorrente non è pertinente.

Dunque, lì dove si la protrazione del trattamento detentivo risulti contraria al senso di umanità e rischi di dar luogo ad un trattamento degradante (per la particolare gravità della patologia riscontrata, per la inadeguatezza delle cure prestate, per la assenza delle condizioni materiali idonee), è preciso dovere della autorità giurisdizionale provvedere all'interruzione della carcerazione, mediante l'applicazione delle norme che prevedono tale eventualità.


Come sottolineato anche dagli arresti della giurisprudenza (nazionale e sovranazionale), occorrerà verificare la adeguatezza del trattamento sanitario praticato, in concreto e non in astratto, parametro su cui andrà misuratala valutazione circa il mantenimento o meno della condizione detentiva, pena il rischio concreto di violazione del divieto di infliggere al detenuto un trattamento inumano o degradante.


Applicando tali considerazioni al caso di specie, a fronte dell'emersione di una seria patologia psichica a carico del detenuto, il Tribunale di Sorveglianza ha adottato una pronunzia motivata in modo incongruo, con mantenimento della condizione detentiva e contestuale affidamento del soggetto ad un trattamento sanitario meramente ipotetico.


Non è stata realizzata la necessaria verifica sull'interazione tra patologia psichica e patologia fisica tale da determinare una condizione di malattia plurifattoriale non fronteggiabile in ambiente carcerario o tale da rendere l'espiazione della pena contraria al senso di umanità, aspetto che, se apprezzato come sussistente, deve condurre pacificamente all'applicabilità del differimento (obbligatorio o facoltativo) o della detenzione domiciliare (art. 47-ter, co. 1-ter, ord. pen).


In particolare, deve essere accertato preliminarmente l'aspetto della effettiva accessibilità e adeguatezza dei trattamenti praticabili nella Sezione per la tutela della Salute Mentale. In assenza di simili valutazioni, il provvedimento finisce con il trasferire sul detenuto il rischio di mancata esecuzione del provvedimento di riallocazione e, soprattutto, di inadeguatezza del trattamento terapeutico praticabile all'interno del circuito penitenziario.


L'ordinanza impugnata va dunque annullata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Sorveglianza.

Cass., I pen., sent. 15531/2018

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