Per la Cassazione le "finalità educative" non possono giustificare atteggiamenti vessatori e condotte violente

di Lucia Izzo - Va condannato per maltrattamenti in famiglia il padre geloso e iperprotettivo che pone in essere ingiurie e violenze nei confronti della figlia: le esigenze di salvaguardare ed educare la minore, non possono assolutamente giustificare atteggiamenti vessatori e condotte violente, che invece integrano veri e propri maltrattamenti psichici e fisici.


Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, nella sentenza n. 9154/2017 (qui sotto allegata), che ha respinto il ricorso del padre nei confronti del quale Corte d'appello aveva confermato la condanna (due anni e tre mesi di reclusione) per maltrattamenti in famiglia posti in essere ai danni della figlia minorenne.


Entrambe le sentenze di merito avevano evidenziato come la minore fosse stata sottoposta, dai primi mesi del 2006 fino al marzo del 2007, a continui maltrattamenti consistiti in ingiurie e violenze fisiche che avevano caratterizzato la sua vita in famiglia.


Inutile per l'uomo contestare la mancanza del requisito dell'abitualità della condotta, in quanto gli Ermellini rammentano che "il compimento di più atti di natura vessatoria idonei a determinare sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, integra il delitto di maltrattamenti, senza che sia necessario che essi vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo sufficiente la loro ripetizione, anche se per un limitato periodo di tempo".

Da respingere anche la doglianza riguardante la mancanza dell'elemento soggettivo del reato, con cui la difesa aveva spiegato che i comportamenti dell'imputato non risultavano realizzati con la volontà di sottoporre la figlia ad una serie di sofferenze fisiche o morali, ma erano diretti verso una finalità ritenuta educativa.

Infatti, per consolidata giurisprudenza, richiamata in sentenza, "l'uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore, anche dove fosse sostenuto da animus corrigendi, integra il delitto di maltrattamenti".


In particolare, nel caso di specie, la difesa del ricorrente ritiene che le condotte violente fossero determinate da una forma di gelosia nei confronti della figlia e dall'intento di volerla in qualche modo salvaguardare ("il padre assumeva la condotta soltanto perché preoccupato per la figlia"): si tratta, precisano i giudici, di "preoccupazioni" che non possono assolutamente giustificare atteggiamenti vessatori e condotte violente.


Pertanto, conclude il Collegio, correttamente i giudici di merito hanno confermato la responsabilità dell'imputato anche sotto il profilo soggettivo, considerando che il reato in esame richiede il dolo generico, consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un'abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza.


Dichiarato inammissibile il ricorso il ricorrente  è condannato al pagamento delle spese processuali e della somma ulteriore in favore della cassa delle ammende.


Cass., VI sez. pen., sent. n. 9154/2017

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