La deformazione delle parole: governabilità e maggioranza

di Angelo Casella - L'uso distorto delle parole non è soltanto un errore: può diventare un subdolo inganno, assai peggiore che offrire scorpioni fritti mascherati da mazzancolle tropicali. Le parole infatti esprimono concetti e, ove distorte e snaturate, possono veicolare abusivamente idee, e conseguenti percorsi speculativi, del tutto deviati rispetto alla realtà del messaggio.

Eppure si tratta di un vizio antico e mai sopito. Ed anzi, oggi, più diffuso che mai nel lessico civile e politico dove è particolarmente pericoloso, poiché trasmette contenuti abitualmente deformati, snaturati e ingannevoli.

Già Socrate raccomandava a Critone: "tu sai bene che il parlare scorrettamente, non solo è cosa di per sé disdicevole, ma fa male anche alle anime".

Più inquietante un passaggio di Attraverso lo specchio, nel quale Humpty Dumpty, chiarisce ad Alice che "quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io...". Obbietta Alice: "bisogna vedere se lei può dare tanti significati diversi alle parole."

"Bisogna vedere -replica Dumpty - chi è che comanda...tutto qui". (cit. da Carofiglio, La manomissione delle parole).

Quando l'alterazione del senso dei termini tocca il linguaggio politico, viene messa in gioco la stessa democrazia e riteniamo pertanto utile cercare di restituire senso e vita ad almeno due parole, tra le più maltrattate e svuotate: Governabilità e Maggioranza.

In fondo, come dice Platone (Protagora), la politica consiste nell'esercizio del rispetto e della giustizia. E nulla è più importante nel rispetto dell'interlocutore dell'uso corretto e appropriato del significato delle parole che si adoperano nella discussione politica.

Governabilità

Il termine è di recente conio e vuole indicare "L'insieme delle condizioni che consentono di raggiungere gli obbiettivi di equilibrio fra le aspettative dei cittadini e le risorse a disposizione dei sistemi di welfare state" (J. Habermas, Fatti e norme). Si fa riferimento, dunque, ad un contesto obbiettivo, non solo contabile, di dati e fattori.

Ma questo significato è stato oggi alterato nell'uso politico per piegarlo ad indicare le possibilità per un governo di disporre liberamente senza dover costantemente convincere le opposizioni. "Governabile" è pertanto quel Paese il cui governo può decidere ciò che gli aggrada, senza l'impaccio di chi la pensa diversamente.

Un significato peraltro inquietante, se si pensa che la sua perfetta applicazione corrisponde alla dittatura.

Ma vediamone in dettaglio il valore semantico, nel suo vero contesto logico.

Governare, nella sostanza, significa emanare direttive, i cui destinatari sono la collettività nazionale nel suo insieme ed i singoli suoi membri.

Ora, i contenuti di queste direttive possono essere decisi dai cittadini (in pratica: dalle assemblee dei rappresentanti) ovvero dallo stesso soggetto che le emana.

Come è ovvio, quando ricorre il primo caso, siamo di fronte ad una istituzione democratica mentre, nel secondo, ad una autocrazia (o dispotismo o, in genere, una di quelle forme di governo che Platone ed Aristotele definirono "degenerazioni istituzionali".

Naturalmente, resta inteso che - sempre nel caso di reggimento democratico - la formazione dei contenuti, deve essere deliberata, (da libra: bilancia), i contenuti, cioè debbono essere esaminati a fondo nel merito, così che le decisioni siano il frutto di una completa discussione e di una attenta valutazione, sia degli effetti, positivi o negativi, che esse comportano, sia dei vincoli, opportunità, interessi e valori coinvolti.

L'apporto alla delibera deve provenire da tutte le componenti della società, cioè da tutti gli agglomerati (partiti) che essa ha espresso nel Parlamento, così che queste decisioni riflettano il più possibile l'interesse comune.

Tizio, Caio, Sempronio e Mevio, discutono discutono di un bene comune, ma poiché la discussione si protrae, ecco Mevio che salta su e pretende di far valere le sue opinioni, appellandosi alla esigenza di "governabilità" del gruppo. Ma egli è portatore del suo interesse personale, e la delibera che propone tutela solo questo, mentre il gruppo deve esprimere l'interesse comune...

E' ovvio che, a seconda dei contenuti, le deliberazioni collettive possono assorbire più o meno tempo, ma questo è il prezzo (se tale si vuole intendere) che bisogna pagare per raggiungere l'obbiettivo del bene collettivo.

Stando così le cose, parlare di governabilità, cioè proporre una improbabile esigenza di decisioni immediate (che, per tale caratteristica possono provenire solo dal governo), è del tutto fuori contesto e rischia di rappresentare una espressione ambigua, che suggerisce surrettiziamente istituzioni autoritarie.

E' poi da rilevare che il termine "governabilità" contiene una intrinseca stonatura se applicato, in senso politico, ad una società che si vuole democratica.

Detto lemma evoca infatti una dicotomia: da un lato una entità che deve essere guidata, condotta, indirizzata ("questo veicolo non è governabile...") e, dall'altro, una diversa entità che intende esercitare tale funzione.

Senonché, democrazia è per l'appunto quella forma di governo per la quale il potere è del popolo, cioè nella quale il popolo si autogoverna. E ciò esclude alla radice che possa esistere un autorità esterna al popolo stesso cui si presenti il problema del governo.

In tale contesto, pertanto, parlare di Paese "ingovernabile" significa rivestire i panni di chi pretenderebbe di governare senza voci dissenzienti. Ma ciò contraddice il concetto medesimo di democrazia che, per sua incancellabile natura, comporta una pluralità di voci, di opinioni, di interessi, di proposte.

Maggioranza

Con questo termine si intende il maggior numero di voti che, in una decisione di gruppo, porta al prevalere di una decisione sulle altre.

Ma sul concetto di "maggior numero" si sono introdotte alcune distorsioni che ne deviano il significato semantico.

La prima di queste "restringe" il senso di maggioranza ad una semplice differenza di numeri. "Quel governo - si usa dire - ha (o non ha) i numeri" (e qui emerge un collegamento con quanto sopra esaminato a proposito della governabilità. Cioè ritroviamo quella stessa inclinazione a deformare i requisiti di base della democrazia).

In effetti, quando si parla di maggioranza, questa non si intende nei numeri, ma nelle volontà.

Parliamo infatti di decisioni collettive, le quali altro non sono che la somma di decisioni individuali.

Un voto, non è un numero, è una scelta. E scegliere presuppone valutare, ponderare i risvolti e le conseguenze di varie possibili alternative, per preferirne alfine la più gradita.

Tipica operazione strettamente personale, che conduce ad una volizione individuale, che presuppone totale libertà e autonomia.

Altrimenti, non è più una decisione di quel soggetto, ma di altri. E allora la volizione manifestata da costui diventa una finzione volitiva, vuota di contenuto decisionale. Non integra alcun apporto e non ha ovviamente alcun valore ai fini della formazione della volontà collettiva.

Volontà, ricordiamo, è il potere naturale di ogni uomo di scegliere e realizzare un proprio comportamento. E' l'espressione immediata di quella libertà che costituisce attributo naturale dell'essere umano, garantito anche dalla Costituzione (art. 3) che attribuisce alla Repubblica il compito di "rimuovere gli ostacoli... che limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Se il comportamento non è l'esito di libera determinazione, la volontà, che dovrebbe generarlo, non esiste.

Se nel gruppo (o fuori di esso) viene esercitata sui componenti una qualsiasi forma di coazione, tale da annullarne la libera e indipendente formazione volitiva, il singolo, da testa pensante, cioè da soggetto che partecipa paritariamente alla formazione della volontà collettiva, diventa un semplice numero che, come tale, esclude l'applicazione del principio.

Come abbiamo già sottolineato, il voto è un negozio giuridico, cioè, primariamente, una manifestazione di volontà, che presuppone una volontà vera e seria, esente da vizi (tradizionalmente indicati in: errore, violenza o dolo) che che ne inficiano la validità.

E la volontà collettiva, che si basa, anzi, che è costituita dalla convergenza delle volontà, vere ed autonome, dei componenti del gruppo, si svuota e scompare ove tale non appaia la volizione dei singoli (per obbedienza, paura, soggezione, obbedienza, ecc.).

Così, commette un duplice oltraggio il capo di un qualsiasi partito quando suona l'adunata ed impone ai membri della sua associazione un voto, appellandosi ad una pretesa "fedeltà" (altra distorsione semantica, essendo la fede, una "credenza piena e fiduciosa" (Treccani), che nulla ha a che fare con il dibattiuto politico).

Il primo, nei confronti dell'elettorato nel suo complesso: la Carta costituzionale (art.67) dispone infatti chiaramente che "Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione (non il partito...) ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato".

Il secondo, in relazione al principio di maggioranza, che presuppone il concorso di volizioni individuali liberamente formate.

Perfino nelle assemblee condominiali si usa prescrivere un limite rigoroso al numero di deleghe concedibili dagli assenti, proprio per rispettare la corretta formazione di una volontà comune.

I parlamentari presenti nelle Camere per effetto del "premio" sono psedo-rappresentanti in quanto privi di mandato:non sono stati votati e quindi non rappresentano nessuno; non sono portatori della volizione dell'elettorato. La loro presenza in un organismo che rappresenta i cittadini in base alle indicazioni dei cittadini, è priva di legittimazione.

Si può, incidentalmente, rilevare come le segnalate deformazioni terminologiche, e quindi concettuali, vadano ad inquinare pesantemente i meccanismi democratici.

La legge prodotta con la "maggioranza" del premio è nulla e inesistente perché priva del suo requisito essenziale: la volontà sottostante dei cittadini.

Oggi, nelle decisioni del Parlamento, agli interessi dei cittadini si sovrappongono quelli dei partiti che, nati senza disciplina specifica e cresciuti senza controlli, sono divenuti centri di potere autoreferenziali con diramazioni e influenze nefaste in tutta la vita, sociale, politica, amministrativa, economica e perfino etica della società. In essi si coltivano le posizioni e i benefici del partito stesso e dei suoi membri con indifferenza ed anche contro l'interesse comune (Hannah Arendt).

Infine, la deformazione mistificatoria del principio di maggioranza raggiunge il suo più oscuro abisso con l'incredibile "premio di maggioranza", attribuito al partito o gruppo che ottiene anche un solo voto in più rispetto agli altri.

Come si può affermare che il Parlamento così alterato approva leggi "a maggioranza"?

Siamo totalmente al di fuori della logica e del senso comune. Questa conclamata "maggioranza" in realtà non esiste affatto in quanto frutto di una artificiosa moltiplicazione del gruppo politico interessato.

I consensi reali sono quelli che si possono ricondurre alle indicazioni dell'elettorato, non alle moltiplicazioni artificiose operate dai partiti.

L'applicazione del "premio" è una falsificazione ed una alterazione della volontà popolare: i soli voti che valgono sono quelli indicati dalla volontà degli elettori, mentre dietro a questa "maggioranza" fasulla non c'è nessuna volizione.

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