L'hijab islamico ha una connotazione religiosa che non giustifica la condotta discriminatoria

di Lucia Izzo - È discriminatoria la condotta del datore di lavoro esclude una donna dalla candidatura per un posto di lavoro a causa della sua decisione di non togliere il hijab, il velo islamico che copre i capelli e lascia scoperto il viso.

Tale condotta viola la direttiva 2000/78/CE e l'art. 3 del d.lgs. 261/03 che ha recepito i principi comunitari garantendo l'eguaglianza tra le varie confessioni.


Lo ha disposto la Corte d'Appello di Milano, sentenza n. 579/2016 (qui sotto allegata) pubblicata il 20 maggio.

Il giudice meneghino ha accolto il ricorso promosso da una donna nei confronti della società che, in fase di selezione di candidate hostess per una Fiera di calzature, ha ritenuto di escluderla poiché non avrebbe dato la sua disponibilità a lavorare senza il velo.


A differenza del primo giudice, che aveva escluso la discriminazione diretta e indiretta, ritenendo l'esclusione giustifica dalla richiesta del selezionatore di presentare al cliente candidate con caratteristiche d'immagine incompatibili con l'indossare un copricapo, la Corte d'Appello sottolinea il carattere oggettivo che connota la discriminazione.

Una condotta, chiariscono i giudici, è discriminatoria se determina in concreto una disparità di trattamento fondata sul fattore tutelato, a prescindere dall'elemento soggettivo del'agente (stato psicologico, dolo, colpa, buona fede).


Non ammettere la candidata alle selezioni per il lavoro ha determinato in capo alla stessa una esclusione o restrizione ai sensi dell'art. 43 del TU immigrazioni, menomando la sua libera contrattuale e restringendo la possibilità di accedere a un'occupazione.

Secondo l'art. 3, comma 1, del d.lgs. 261/2003, che ha attuato la direttiva CE per la parità di trattamento e condizioni di lavoro, il principio di parità di trattamento si applica anche senza distinzione di religione a tutte le persone, sia nel settore pubblico che privato, ed è suscettibile di tutela giurisdizionale.


Lo hijab  ha una connotazione religiosa e appartiene alla pratica consigliata dal Corano, come allegato da parte ricorrente; pertanto l'esclusione da un posto di lavoro a ragione del velo costruisce una discriminazione diretta in ragione dell'appartenenza religiosa.


Una differenza di trattamento sarebbe legittimata solo laddove la caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.

Tuttavia, nel caso in esame, non sussiste alcuna causa di giustificazione, poiché non emerge da alcun documento che il capo scoperto e il correlativo divieto di indossare il velo sia stato qualificato come requisito essenziale e determinante della prestazione.

La società convenuta è condannata al risarcimento del danno, anche non patrimoniale (equitativamente determinato in euro 500,00) e alla cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole.

Spese di entrambi i giudizi compensate.

Corte d'Appello di Milano, sent. n. 579/2016

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