Il reato di false comunicazioni sociali alla luce della riforma del 2015

di Giovanni Tringali - L'articolo 9 della Legge 27 maggio 2015 n. 69 entrata in vigore lo scorso 14 giugno 2015, sostituisce l'articolo 2621 del codice civile. Il reato societario passa da contravvenzione a delitto, la cornice edittale è la reclusione da uno a cinque anni anziché l'arresto fino a due anni. Vengono eliminate le "valutazioni", si introducono nuovi elementi: i fatti materiali non rispondenti al vero devono essere "rilevanti", l'esposizione di questi deve essere "consapevole", la condotta deve essere "concretamente" idonea ad indurre altri in errore.

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La norma

Art. 2621 c.c. (False comunicazioni sociali)

«Fuori dai casi previsti dall'art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni.

La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi».

Il bene giuridico protetto (reato monoffensivo)

La trasparenza, o la fiducia dei terzi nella veridicità delle rappresentazioni contenute nelle comunicazioni sociali. Si tratta di un delitto di pericolo concreto, di conseguenza non necessita il verificarsi di un danno per i creditori o i soci.

I soggetti attivi

Sono gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori; si tratta quindi di reato proprio Ai fini della responsabilità penale, non ci si preoccupa di rintracciare l'autore del reato sulla base della sua sola investitura formale, ma lo si fa anche sul piano funzionale, ossia sul piano dello svolgimento delle attività tipiche degli amministratori, dei direttori generali, dei sindaci, dei liquidatori e dei dirigenti preposti. La disposizione di cui all'art. 2639 c.c., infatti, opera un'estensione delle qualifiche soggettive, includendo nel novero dei soggetti attivi sia coloro che svolgono le stesse funzioni rivestite dai soggetti di volta in volta individuati dal precetto penale (anche se diversamente qualificate), sia il c.d. responsabile di fatto ossia il soggetto che, in assenza di formale investitura, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione richiamata dalla fattispecie.

L'elemento soggettivo

Si tratta del dolo specifico caratterizzato dal fine di procurare per sé o per altri un ingiusto profitto. Rispetto alla norma precedente, sparisce il riferimento all'intenzione di ingannare i soci o il pubblico. L'uso dell'avverbio consapevolmente esclude la configurabilità del dolo eventuale.

L'elemento oggettivo

La condotta può consistere nel consapevolmente:

a) esporre fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero

b) nell'omettere fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge

sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.

Varie, quindi, le differenze rispetto alla precedente disposizione. Vediamoli in sintesi:

a) l'uso dell'avverbio consapevolmente che abbraccia le due diverse condotte;

b) sia la condotta attiva sia quella omissiva devono avere per oggetto i fatti materiali (con l'aggiunta di essere rilevanti) mentre prima, la condotta omissiva aveva ad oggetto le "informazioni" la cui comunicazione è imposta dalla legge;

c) si è aggiunto l'avverbio concretamente per meglio specificare l'idoneità dell'induzione in errore;

d) l'oggetto materiale del reato è rimasto identico (bilanci, relazioni e altre comunicazioni dirette ai soci e al pubblico), ma l'inciso "previste dalla legge" è stato spostato rispetto alla formulazione previgente, in coda all'elenco, probabilmente con l'intento di fugare i dubbi circa il fatto che la specificazione riguardi non solo le comunicazioni, ma altresì le relazioni.

I soggetti passivi

I destinatari delle comunicazioni, gli "ingannabili" cioè i soci o il pubblico.

La consumazione del reato

Si tratta di reato istantaneo che si consuma nel momento e nel luogo in cui il bilancio, le relazioni o le altre comunicazioni sociali sono portate a conoscenza dei destinatari. Nel caso di comunicazioni orali, l'illecito si consuma nel momento della dichiarazione e nel luogo in cui questa è stata diffusa; nel caso di comunicazioni scritte, l'illecito si consuma nel momento e nel luogo in cui tali dichiarazioni sono poste nella disponibilità dei soci e del pubblico secondo le modalità prescritte dalla legge. In particolare, nel caso di bilancio, il reato si perfeziona nel luogo in cui si riunisce l'assemblea ed il bilancio viene illustrato ai soci e si consuma nel momento del deposito dello stesso presso la sede sociale.

E' configurabile il tentativo.

Prescrizione e procedibilità

Essa è di 6 anni in base all'art. 157 del c.p.[1], aumentabile fino a 7 anni e 6 mesi in caso di interruzione ex art. 160 del c.p. La procedibilità è d'ufficio.

Le altre norme introdotte

La modifica del reato di false comunicazioni sociali è avvenuta non solo grazie alla riformulazione dell'art. 2621 ma anche per effetto dell'introduzione di altre due norme che ne delimitano i confini applicativi e di un'altra norma specifica per le società quotate:

Art. 2621-bis c.c. (Fatti di lieve entità)

«Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la pena da sei mesi a tre anni di reclusione se i fatti di cui all'articolo 2621 sono di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta.

Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la stessa pena di cui al comma precedente quando i fatti di cui all'articolo 2621 riguardano società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell'articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267[2]. In tale caso, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale».

Art. 2621-ter c.c. (Non punibilità per particolare tenuità)

«Ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all'articolo 131-bis[3] del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, l'entità dell'eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis».

Con la prima norma si è voluto punire con minor rigore i fatti di lieve entità. Ciò è perfettamente in linea con la logica di un diritto penale inteso come extrema ratio per la difesa dei beni giuridici. Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare come il concetto di "lieve entità" riferito al fatto, seppur agganciato alla natura e alle dimensioni della società nonché alle modalità e agli effetti della condotta, sia piuttosto vago.

Con la seconda disposizione si è voluto precisare che, ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudice deve valutare, in modo prevalente, l'entità del danno cagionato alla società ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis.

Singolare risulta che per un reato di pericolo concreto come quello previsto dall'art. 2621 del c.c., per il quale è assolutamente indifferente la realizzazione di un danno ai fini della integrazione della fattispecie, si preveda che ai fini della "non punibilità" sia il giudice a valutare l'eventuale danno.

Art. 2622 c.c. - (False comunicazioni sociali delle società quotate)

«Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell'Unione europea, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico consapevolmente espongono fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da tre a otto anni.

Alle società indicate nel comma precedente sono equiparate:

1) le società emittenti strumenti finanziari per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell'Unione europea;

2) le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione italiano;

3) le società che controllano società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell'Unione europea;

4) le società che fanno appello al pubblico risparmio o che comunque lo gestiscono.

Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi».

Come affermato anche dalla Cassazione nella recente sentenza n. 37570/2015, la nuova legge ha introdotto due autonomi titoli di reato tramite gli artt. 2621 e 2622 c.c., configurati entrambi come delitti con il fine di differenziare la repressione delle false comunicazioni sociali a seconda che il fatto sia commesso nell'ambito di una società "non quotata" ovvero di una "quotata". Differenziazione che si traduce soprattutto nella previsione di diverse cornici edittali di pena: da uno a cinque anni di reclusione nel primo caso, da tre a otto nel secondo.

La struttura delle due incriminazioni è pressoché identica ed è tesa a superare l'assetto ideato dal legislatore del 2002 nel quale era prevista una fattispecie contravvenzionale di pericolo ed un delitto di danno, in un rapporto di sostanziale progressione criminosa tra loro.

Le modifiche apportate dalla Legge n. 69 del 2015 hanno, per certi versi, ampliato l'ambito di operatività dell'incriminazione delle false comunicazioni sociali, avendo comportato l'eliminazione dell'evento (danno) e delle soglie previste dai precedenti artt. 2621 e 2622 c.c., mantenendo invece nella sostanza identico il profilo della condotta tipica.

Approfondimenti

Successione di leggi penali

Ex art. 2 c.p.:

1. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva
reato.
2. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è
stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.
3. Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la
pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi
dell'articolo 135.
4. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.
5. Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.
6. Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un
decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti».

Dopo l'introduzione della legge del 27 maggio 2015 n. 69 che sostituisce l'art. 2621 del c.c. siamo in presenza di successione di leggi penali ex art. 2 del c.p., atteso che sembra evidente un rapporto di continuità normativa. Si ritiene che questa sussista allorché vi sia un rapporto di continenza tra la vecchia e la nuova disciplina talché la nuova disciplina ritagli un'area comune a quella precedente ma con l'aggiunta di elementi che ne specificano l'ambito di applicazione.

In realtà, la nuova disciplina non aggiunge nuovi elementi ma semmai li modifica o li toglie: infatti, non è più previsto l'inciso "ancorché oggetto di valutazioni" riferito ai fatti materiali non rispondenti al vero.

Dobbiamo verificare se, confrontando le due norme, scatti l'operatività del principio del favor rei di cui al quarto comma dell'art. 2 c.p, ma anche stabilire anche quale sia la disposizione più favorevole al reo.

L'operatività del favor rei presuppone che ci si trovi di fronte ad un'autentica ipotesi di successione di fattispecie incriminatrici accertabile in base al criterio del rapporto di continenza.

A tal proposito è da precisare che il raffronto tra le due discipline va effettuato in concreto cioè non paragonando le astratte previsioni normative ma i risultati dell'applicazione di ciascuna di esse alla situazione concreta in giudizio.

La pena legale non è solo quella prevista dalla singola norma incriminatrice, ma quella che risulta dall'applicazione delle varie disposizioni che incidono sul trattamento sanzionatorio.

La vecchia disciplina, essendo una contravvenzione, prevedeva l'arresto fino a due anni. La nuova disciplina, essendo un delitto, prevede la reclusione da uno a cinque anni. Ma ciò evidentemente non è sufficiente per stabilire quale sia la disposizione più favorevole. Toccherà al giudice applicare la norma al caso concreto, tenendo presente che ciò che conta è il trattamento sanzionatorio complessivamente considerato, il quale non deve risultare più sfavorevole al reo.

Sarebbe erroneo partire dalla considerazione che siccome l'illecito è stato trasformato da contravvenzione a delitto, la norma più favorevole è sicuramente la precedente. L'unica cosa certa è che se un soggetto ha commesso il reato esponendo nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, fatti materiali non rispondenti al vero ma oggetto delle c.d. "valutazioni", superando le soglie previste dalla precedente normativa, oggi non è punibile per l'applicazione del favor rei (il fatto non costituisce più reato).

In materia di successione nel tempo di leggi penali, una volta individuata la disposizione complessivamente più favorevole, il giudice deve applicare questa nella sua integralità, ma non può combinare un frammento normativo di una legge e un frammento normativo dell'altra legge secondo il criterio del favor rei, perché in tal modo verrebbe ad applicare una terza fattispecie di carattere intertemporale non prevista dal legislatore, violando così il principio di legalità (Sez. 4, Sentenza n. 47339 del 28/10/2005).

Dal raffronto tra la vecchia e la nuova disciplina si possono notare alcune differenze. Innanzitutto nella vecchia norma si faceva riferimento all'intenzione di ingannare i soci, mentre nella nuova tale inciso è stato eliminato. La nuova disposizione ha aggiunto:

1) l'avverbio consapevolmente prima di "espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero"

2) l'aggettivo rilevanti riferendosi ai fatti materiali

3) l'avverbio concretamente prima di "idoneo ad indurre in errore".

L'aver introdotto il termine "consapevolmente" probabilmente crea più problemi di quelli che si voleva risolvere. La parola denota un fenomeno estremamente intimo, non è un superficiale essere informati ma una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore. Ai sensi dell'art. 43 c.p. "Il delitto è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione".

Circa la coscienza dell'antigiuridicità del fatto, la Corte costituzionale ha chiarito come, pur a fronte dell'art. 5 c.p. in forza del quale nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale, si debba dare un ruolo centrale alla possibilità di conoscere la norma penale e quindi alla "conoscibilità". Pertanto, l'unico limite alla responsabilità penale è dato dall'oggettiva impossibilità di conoscenza del precetto; l'oggetto del dolo viene individuato nella "conoscenza del significato illecito del fatto" senza necessità di una specifica conoscenza della norma penale.

Dunque, per la configurabilità del dolo occorre che il soggetto abbia:

1) la rappresentazione e volontà degli elementi della fattispecie tipica
2) la consapevolezza che il fatto che va a commettere è un atto illecito penalmente sanzionato.

Esporre consapevolmente "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero" dovrebbe significare, allora, rappresentarsi e voler esporre in bilancio "fatti non rispondenti al vero" ma anche avere la consapevolezza che questo fatto è un illecito penale.

Ma qui si pone il perenne problema dell'oggetto del dolo e cioè se esso abbracci o meno anche la consapevolezza del disvalore penale del fatto, se cioè il dolo, oltre alla coscienza e volontà del fatto materiale abbracci la consapevolezza di agire in contrasto con la legge penale o quantomeno illecitamente.

L'aver introdotto il termine "rilevanti" a proposito dei "fatti materiali" ha evidentemente avuto lo scopo legislativo di delimitare l'area del penalmente rilevante ai fatti più gravi. Il termine, ahimè, è connotato da profili di incertezza e toccherà sempre al giudice valutare caso per caso. Non si fa fatica a credere che vi saranno numerose sentenze, anche molto diverse tra loro, su questo punto (si pensi ai diversi contesti e settori economici, ai diversi mercati e alle diverse aree geografiche in cui operano le imprese per cui, ciò che è rilevante in un luogo o in un mercato potrebbe non esserlo in un altro).

L'aver introdotto il termine "concretamente" per riferirsi al modo in cui la condotta deve essere idonea ad indure in errore i soggetti tutelati dalla legge, voleva probabilmente escludere che potesse considerarsi, ai fini penali, anche una condotta che solo astrattamente è idonea a trarre in inganno. Per questa via il giudice dovrà valutare non tanto se i destinatari delle comunicazioni sociali siano stati effettivamente ingannati (che significherebbe rintracciare il danno non richiesto dalla norma), ma se le modalità dell'inganno erano tali (in concreto) da mettere in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma.

A parte queste considerazioni e dubbi che solo il futuro ci potrà chiarire, ciò che veramente cambia nella sostanza è l'eliminazione dell'inciso "ancorché oggetto di valutazioni" riferendosi ai fatti materiali non rispondenti al vero.

Si segnala che recentemente la Cassazione, con sentenza n. 33774/2015, ha annullato senza rinvio alcuni capi di imputazione di una condanna per bancarotta a carico di un soggetto "perché i fatti non sono più previsti dalla legge come reato" ritenendo, cioè, che a seguito dell'eliminazione dell'inciso «ancorché oggetto di valutazioni» dagli artt. 2621 e 2622 c.c., i segmenti di bancarotta ex art. 223 L.F[4]. riconducibili ai falsi in bilancio derivanti da valutazioni non debbano essere più ricompresi nella fattispecie. Secondo i giudici con la nuova formulazione delle due fattispecie di false comunicazioni sociali ex artt. 2621 e 2622, si è ridotto l'ambito di operatività del penalmente rilevante nel senso che sono esclusi i cosiddetti falsi valutativi.

In verità, sembra del tutto evidente che l'adozione dello stesso riferimento ai "fatti materiali non rispondenti al vero", senza alcun richiamo alle valutazioni e il dispiegamento della formula citata anche nell'ambito della descrizione della condotta omissiva, consente di ritenere ridotto l'ambito di operatività delle due nuove fattispecie di false comunicazioni sociali, con esclusione dei richiamati falsi valutativi.

In passato dottrina e giurisprudenza hanno sostenuto che l'ipotesi dell'erronea valutazione delle attività nel bilancio sociale normalmente non rientra nel campo della falsità dei bilanci salvo quando essa oltrepassi il limite di ogni ragionevolezza, non potendo in tal caso parlarsi di discrezionalità, ma di valutazione artificiosa mirante a nascondere gli utili realizzati o a dimostrare l'esistenza di utili che, in realtà, non esistono.

Si era più volte chiarito che, ai fini della sussistenza del reato di cui all'art 2621 c.c, il mezzo per raggiungere la falsificazione ("fatto non rispondente al vero") deve identificarsi in una qualsiasi attività atta ad alterare la situazione obiettiva.

L'esigenza di tipicità della norma nella sua applicazione in sede penale nei testi previgenti degli artt. 2621 e 2622 finiva per essere soddisfatta proprio mediante l'individuazione di una soglia di rilevanza delle valutazioni estimative.

Come giustamente osservato nella sentenza in commento, nel caso di reati di bancarotta impropria da falso in bilancio, l'esigenza di una tipizzazione era (ed è tuttora) ancora più intensa ove si consideri che la fattispecie prevista dall'art. 223, comma 2, n. 1 è un reato di evento (costituito dal dissesto) ma a condotta vincolata, giacché quest'ultima è definita dal richiamo operato con l'espressione "commettendo i fatti" previsti dagli artt. 2621 e 2622 (nonché da tutte le altre norme del codice civile espressamente indicate nella stessa norma). Assume, quindi, particolare rilevanza, ai fini del rispetto del principio di tipicità della fattispecie penale, una chiara delimitazione della condotta, per evitare di incorrere in interpretazioni vietate ex art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale.

Le cose sono ancora più problematiche per quanto riguarda l'art. 223, comma 2, n. 2 della legge fallimentare, considerato che esso prevede un reato di evento (costituito dal fallimento) con condotta a forma libera (tanto che si è dubitato della legittimità costituzionale della norma stessa).

Nella nuova normativa, di cui agli artt. 2621 e 2622, la suddetta esigenza di tipizzazione della condotta non risulta affatto soddisfatta e il mancato esplicito riferimento alle valutazioni estimative finisce per lasciare all'interprete la discrezionalità (e quindi l'arbitrio) di precisare il contenuto dei "fatti materiali". A ciò si aggiunga l'ulteriore incertezza creata dall'inserimento dell'aggettivo "rilevanti" nella struttura della fattispecie di cui all'art. 2621 c.c. (precisazione che, tra l'altro, inspiegabilmente non viene replicata nella gemella disposizione di cui all'art. 2622 c.c.), lasciando in tal modo alla valutazione discrezionale del giudice la determinazione della soglia che determina ciò che rientra nel penale.

Ma parlando di cose concrete e lasciando al giudice l'arduo compito di definire caso per caso ciò che è "rilevante", esporre un "fatto materiale non rispondente al vero" è certamente:

a) appostare in bilancio ricavi o costi non reali (perché ad esempio derivanti da operazioni inesistenti documentate da fatture false);

b) lasciare in bilancio crediti sebbene ormai definitivamente inesigibili per il fallimento senza attivo del debitore;

c) la valutazione di qualcosa di inesistente come ad esempio un credito inesistente, inesigibile o irrealizzabile;

d) l'omessa indicazione della vendita o dell'acquisto di beni;

e) mancata svalutazione di una partecipazione nonostante l'intervenuto fallimento della società controllata;

f) l'omessa indicazione di un debito derivante da un contenzioso nel quale si è rimasti definitivamente soccombenti;

g) indicare crediti inesistenti in quanto originati da contratti fittizi;

h) indicare all'attivo dello stato patrimoniale il credito nei confronti di un cliente per "fatture da emettere" in violazione del principio di competenza, afferendo i ricavi all'esercizio successivo ed essendo il contratto concluso solo l'anno dopo;

i) indicare tra i crediti verso clienti un importo in relazione all'emissione di una fattura per operazioni inesistenti.

L'elencazione non è ovviamente esaustiva ma comunque fa capire di cosa si stia parlando ossia di "fatti non veri" e non di mere valutazioni o stime non corrette di "fatti esistenti".

Ebbene, le nuove norme rischiano di punire solo chi dice di avere beni o debiti che non ha, o chi tace su beni o debiti che invece ha (fatti materiali). Sorge il problema di valutare se è colpevole chi usa "deliberate valutazioni" scorrette di beni o debiti. Non c'è dubbio a mio parere che, come già elaborato dalla giurisprudenza in passato, quando queste "deliberate valutazioni" scorrette oltrepassino il limite di ogni ragionevolezza, si rimane nel penalmente rilevante perché una tale condotta mostra una realtà diversa da quella effettiva, tanto da essere assimilabile ai "fatti materiali".

In generale, quindi, possiamo concludere che da una parte la norma di cui all'art. 2621 c.c. è stata aggravata mentre dall'altra è stata alleviata. E' stata aggravata:

1) perché la fattispecie viene trasformata da contravvenzione a delitto. La procedibilità era d'ufficio anche per la contravvenzione, per cui nulla cambia sotto questo aspetto;

2) perché vengono inasprite le sanzioni penali (si passa dall'arresto fino a due anni alla reclusione da uno a 5 anni) e le sanzioni pecuniarie previste dall'art. 25-ter del d.lgs. 231/2001 (si passa dal "cento a centocinquanta quote" all'attuale "duecento a quattrocento quote");

3) perché con la nuova norma non è più necessario che vi sia l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico (per l'accertamento del dolo specifico è sufficiente constatare il fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto).

Da un altro lato, la norma di cui all'art. 2621 c.c. (ma ciò vale anche per l'art. 2622 c.c.) è stata alleviata perché viene eliminato qualsiasi riferimento alle "valutazioni" determinando la non punibilità per le scorrette stime di beni o debiti.

La giurisprudenza costituzionale e comunitaria

Leggendo il dossier relativo al disegno di legge governativo n. 1687 "Misure volte a rafforzare il contrasto alla criminalità organizzata e ai patrimoni illeciti", assegnato alle Commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia, si possono apprezzare alcune considerazioni in merito alle questioni di legittimità costituzionale sollevate in passato sulla disciplina delle false comunicazioni sociali di cui agli articoli 2621 e 2622 c.c., come modificata dal d.lgs. n. 61 del 2002. I punti invocati dai giudici a quo riguardavano in sintesi:

a. articolo 3 della Costituzione[5], in quanto gli articoli 2621 e 2622 c.c. avrebbero delineato una fattispecie a formazione progressiva, reprimendo, il primo, la dichiarazione infedele e, il secondo, la dichiarazione infedele a cui consegua un danno specifico, così dando luogo a diverse risposte repressive (contravvenzione o delitto) in relazione alla medesima condotta; lo stesso articolo 3 Costituzione per l'irragionevole disparità di trattamento della fattispecie criminosa delle false comunicazioni sociali rispetto ad altri reati di frode lesivi del medesimo interesse alla "trasparenza" del mercato, quali, in assunto, i delitti di aggiotaggio (articolo 501 c.p. e articolo 2637 c.c.), ben più severamente repressi; lo stesso articolo 3 Costituzione nella parte in cui la riforma ha modificato il termine di prescrizione del reato di false comunicazioni sociali previsto dalle norme vigenti anteriormente alla riforma (l'originario termine era decennale, quello previsto per la contravvenzione di soli tre anni), di fatto impedendo l'effettiva repressione di molte condotte illecite;

b. articolo 25 della Costituzione[6] per l'indeterminatezza dell'illecito penale, nella parte in cui la riforma subordina la sussistenza del reato ad una alterazione "sensibile" della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società o del gruppo di appartenenza;

c. l'articolo 24, comma 1, della Costituzione[7], per la previsione all'articolo 2622 c.c. della perseguibilità a querela delle false comunicazioni sociali che hanno cagionato danno ai soci o ai creditori, allorché si tratti di fatto commesso nell'ambito di società non quotate;

d. articolo 27, comma 3, della Costituzione[8], per la presunta manifesta inadeguatezza del modulo contravvenzionale rispetto alle caratteristiche oggettive e soggettive dell'illecito;

e. l'articolo 76 (e 25, secondo comma)[9] della Costituzione per la presunta genericità della delega nella parte in cui richiede la fissazione di soglie di punibilità (delega in bianco), con particolare riferimento al terzo ed al quarto comma dell'articolo 2621 c.c., nella parte in cui delineano una serie di soglie di punibilità a carattere percentuale: in specie, escludendo «comunque» la punibilità delle falsità o delle omissioni che determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al cinque per cento, o una variazione del patrimonio netto non superiore all'uno per cento; nonché escludendo la punibilità dei fatti conseguenti a valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al dieci per cento da quella corretta. Da un lato, infatti, le soglie di punibilità introdotte dal decreto legislativo — in mancanza della fissazione di direttive nella legge delega — verrebbero ad integrare il contenuto precettivo della norma penale in contrasto con il principio della riserva assoluta di legge. Da un altro lato, il legislatore delegato avrebbe attuato la generica indicazione della legge delega stabilendo soglie percentuali "tipizzate", senza spiegare le ragioni delle sue scelte, ovvero fornendo giustificazioni «non veritiere» o non pertinenti rispetto all'oggetto della delega.

f. l'articolo 117, comma 1, della Costituzione[10], in relazione all'articolo 8 della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni commerciali internazionali - ratificata dall'Italia con legge 29 settembre 2000, n. 300 - che impone alle Parti di prevedere adeguate sanzioni per le violazioni contabili delle imprese, al fine di impedire la creazione di "fondi neri" utilizzabili a scopo di corruttela: finalità, questa, che sarebbe frustrata dalla introduzione di soglie di punibilità che - in quanto parametrate percentualmente al risultato economico di esercizio o al patrimonio netto della società - renderebbero penalmente lecite falsità anche molto rilevanti

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 161 del 2004, ha concluso per l'inammissibilità di tutte le questioni sollevate.

Quanto appena detto, ci dà spunto per constatare come la nuova disciplina introdotta a seguito della legge 27 maggio 2015 n. 69, nonostante la Consulta abbia dichiarato inammissibili le varie questioni costituzionali, sembra aver seguito passo passo quanto era emerso dai vari giudici a quo, al fine di porvi rimedio.

A parte quanto già detto in merito al termine "rilevanti", si è verificata, infatti, l'eliminazione delle soglie di punibilità e della procedibilità a querela, la trasformazione da contravvenzione a delitto per l'art. 2621 c.c., l'eliminazione del concetto di alterazione sensibile della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, semplificando notevolmente la disciplina.

I soggetti attivi

Agli amministratori, direttori generali, sindaci, liquidatori e dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, vanno aggiunte, infine, alcune figure elencate da specifiche disposizioni di legge che possono anch'esse rivestire la qualifica di soggetto attivo del reato quali:

1) le persone che hanno la direzione dei consorzi con attività esterna (art. 2615 bis c.c.);

2) coloro che svolgono le funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso banche, anche se non costituite in forma societaria (art. 135 del D.lgs. n. 385/1993);

3) gli amministratori ed i liquidatori del Gruppo europeo di interesse economico c.d. GEIE (art. 13 D.lgs. n. 240/1991);

4) coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dalla autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni della stessa posseduti o gestiti per conto di terzi (art. 2639 c.c.) [11];

5) coloro che svolgono le stesse funzioni rivestite dai soggetti di volta in volta individuati dal precetto penale art. 2639 c.c.,

6) c.d. responsabile di fatto (soggetto che, in assenza di formale investitura, esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione richiamata dalla fattispecie) art. 2639 c.c.

In materia di società quotate, inoltre, abbiamo:

7) il dirigente preposto. L'art 154 bis T.U.F. prescrive che si debba nominare un dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, fra i quali rientrano, rispettivamente, il bilancio d'esercizio ed il bilancio consolidato, Fra i vari compiti egli deve attestare, con propria dichiarazione scritta, la corrispondenza degli atti e delle comunicazioni societarie diffuse al mercato alle risultanze documentali;

8) direttore generale, il quale deve sottoscrivere l'attestazione di veridicità dei bilanci sopra detti;

9) gli organi amministrativi delegati sono chiamati, insieme al dirigente preposto, a dichiarare la corrispondenza dei bilanci alle risultanze dei libri e delle scritture contabili e tale compito, di certo, presuppone un'analoga presa di coscienza del modo in cui i bilanci sono stati formati nonché dei criteri di valutazione applicati.

In considerazione del fatto che il bilancio viene redatto solo formalmente dall'organo gestorio della società (in realtà alla sua redazione concorrono diversi uffici e direzioni della società e spesso uno o più consulenti), si dovrebbe valutare il rapporto tra il comportamento fraudolento dei redattori e quello dipendente da negligenza, imperizia od imprudenza, sia dei redattori del bilancio e dell'organo societario preposto per legge e/o per statuto al suo controllo sia dei soggetti dell'organizzazione di impresa che partecipano al complesso ed articolato processo di formazione del bilancio e degli eventuali consulenti.

Elemento soggettivo

Nella nuova formulazione della norma è sparito l'inciso "con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico". Questa non può essere una dimenticanza, per cui, affinché possa configurarsi il reato di false comunicazioni sociali ad opera dei redattori del bilancio e altri diversi attori, anche del controllo, è sufficiente, adesso, che i comportamenti da questi posti in essere siano caratterizzati da un solo elemento, ossia dalla volontà di conseguire un ingiusto tornaconto economico a proprio vantaggio ed a beneficio di altri eventuali compartecipanti (animus lucrandi), quali anche la stessa società.

Non è più necessario il consilium fraudis (l'intento fraudolento) e (per l'art. 2622 c.c.) non è richiesto neanche l'animus nocendi, ossia l'intenzione di recare ai soci o al pubblico ingiusto danno patrimoniale.

In materia di profitto ingiusto[12], si ritiene che il termine profitto sia da intendere non solo quello economico e valutabile in moneta, ma che ricomprenda ogni tipo di vantaggio o utilità, mentre il termine "ingiusto" può riferirsi sia a uno strumento antigiuridico sia a uno strumento legale ma utilizzato per uno scopo diverso.

Oggetto della condotta

L'oggetto materiale della condotta può consistere:

a) bilancio

b) comunicazioni sociali previste dalla legge

c) relazioni

d) informazioni richieste ma non imposte dalla legge (non più, in verità, richiamate dagli artt. 2621 e 2622 c.c.)

Tali documenti devono essere diretti ai soci o al pubblico.

Nella nozione di bilancio rientrano:

a) il bilancio d'esercizio (che, ai sensi dell'art. 2423 c.c., "deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell'esercizio")

b) il bilancio straordinario

c) il bilancio finale di liquidazione

d) i prospetti contabili predisposti in occasione di particolari eventi o in relazione a determinate vicende giudiziarie o amministrative (quali riduzione del capitale, fusione, scissione o distribuzione di acconti sui dividendi)

e) la documentazione da depositarsi unitamente all'istanza di fallimento

f) l'inventario delle attività e passività sociali da redigersi da parte degli amministratori e dei liquidatori all'inizio della liquidazione.

Non dovrebbero rientrare, invece, in tale nozione i c.d. bilanci-tipo, in quanto rappresentano documenti aventi carattere meramente previsionale e programmatico, e i c.d. bilanci infrannuali, in quanto predisposti per utilità di carattere meramente privatistico, quali l'ottenimento di un finanziamento, e non per un obbligo di legge (la norma parla di bilanci, relazioni e altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico "previste dalla legge").

Le comunicazioni sociali devono essere previste per legge e rivolte ai soci ovvero al pubblico. Questa riserva di legge esclude la rilevanza penale di qualunque comunicazione atipica e non istituzionalizzata, ancorché diretta ai soci e al pubblico: si fa, a questo proposito, l'esempio delle esternazioni d'uso corrente come i comunicati e le conferenze stampa, nonché delle stesse dichiarazioni estemporanee ai soci riuniti in assemblea e financo delle comunicazioni prescritte dalla Consob in forza di poteri regolamentari.

Nelle comunicazioni sociali invece potrebbe rientrare la dichiarazione scritta del dirigente preposto che deve accompagnare gli atti e le comunicazioni delle società diffusi al mercato e relativi all'informativa contabile anche infrannuale della società, diretta ad attestarne la corrispondenza alle risultanze documentali, ai libri e alle scritture contabili ex art. 154 bis TUF (in relazione alla legge 28 dicembre 2005, n. 262 in merito alle S.p.A. quotate in borsa)

Nella nozione di relazioni rientra anche la relazione sul bilancio di esercizio, sul bilancio semestrale abbreviato e, ove redatto, sul bilancio consolidato con la quale il dirigente preposto attesta l'adeguatezza e l'effettiva applicazione delle procedure amministrative e contabili dallo stesso predisposte per la predisposizione del bilancio sempreché i suoi contenuti riguardino direttamente la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società. Si potrà configurare una responsabilità penale del dirigente preposto, in alcuni casi anche in concorso con gli stessi qualora abbia predisposto procedure amministrative e contabili dirette proprio a determinare la successiva falsità da parte degli amministratori nel momento in cui andranno a redigere il bilancio.

In merito alle informazioni richieste ma non imposte dalla legge, nonostante queste non siano più espressamente indicate negli artt. 2621 e 2622 c.c., occorre fare riferimento all'art. 2423, comma 3 c.c., che prevede che «se le informazioni richieste da specifiche disposizioni di legge non sono sufficienti a dare una rappresentanza veritiera e corretta, si devono fornire le informazioni complementari necessarie allo scopo»; la dottrina maggioritaria ritiene che l'inciso "si devono fornire" ne sancisce comunque l'obbligatorietà nelle ipotesi in cui vi è la necessità di fornirle (con la conseguenza che nel caso in cui non vengano fornite, si potrà incorrere nel reato a titolo omissivo).

Patrimonio netto

Secondo la definizione che ne dà l'OIC 28 ed. agosto 2014 (l'organismo italiano di contabilità) il patrimonio netto è la differenza tra le attività e le passività di bilancio. In altri termini, il patrimonio netto esprime la capacità della società di soddisfare i creditori e le obbligazioni "in via residuale" attraverso le attività. In tale accezione, il patrimonio netto individua il "capitale di pieno rischio", la cui remunerazione e il cui rimborso sono subordinati al prioritario soddisfacimento delle aspettative di remunerazione e rimborso del capitale di credito.

Tentativo

E' possibile. Secondo l'art. 56 del c.p.: «chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica».

Il delitto si presenta come un reato di pericolo concreto (si pensi alla formula usata "in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore), anche se a ben vedere, la trasparenza, quale bene giuridicamente tutelato, è sicuramente lesa da condotte come quelle tipizzate.

Responsabilità amministrativa degli enti

Le false comunicazioni sociali costituiscono uno dei reati presupposto annoverati dal D.lgs. 231/2001 e precisamente all'art. 25-ter del testo normativo che è stato modificato dalla legge 27 maggio 2015 n. 69 c.d. anticorruzione. Il nuovo reato risulta aggravato anche nella sanzione pecuniaria.

La nuova formulazione dell'art. 25-ter - Reati societari - recita:

«1. In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall'articolo 2621 del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote;

a-bis) per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall'articolo 2621-bis del codice civile, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote»;

Nella previgente norma la sanzione andava da cento a centocinquanta quote e ovviamente non vi era il riferimento all'art. 2621-bis di nuova emanazione.

Si noti, inoltre, l'eliminazione del riferimento all'interesse della società per la commissione dei reati societari, difatti la formula era la seguente:

«in relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, se commessi nell'interesse della società, da amministratori, direttori generali o liquidatori o da persone sottoposte alla loro vigilanza, qualora il fatto non si fosse realizzato se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi inerenti alla loro carica, si applicano le seguenti sanzioni pecuniarie»

Con la vecchia disposizione si era voluto ribadire la ratio del D.lgs. 231/2001 e cioè che "l'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio" mettendo in risalto il ruolo di vigilanza degli amministratori e degli altri soggetti. Il legislatore, probabilmente in questo caso, ha voluto semplificare il compito di chi deve applicare la legge determinando un automatismo del tipo "reato societario-sanzione contro l'ente", dando per scontato che il reato societario avvantaggi l'ente giuridico.

Considerazioni conclusive

Cosa dire di questa riforma: di primo acchito mi verrebbe da dire che non è tutto oro quello che luccica. Con la previgente normativa la "non punibilità" era legata a certe soglie percentuali che oltre ad operare in via alternativa tra di loro, erano configurate come elementi costitutivi del reato che concorrevano a tipizzarlo, con la conseguenza che, affinché si potesse ritenere integrato il reato di falso in bilancio, la condotta doveva anche determinarne il superamento.

Per quanto attiene alle "società non quotate", è vero che nella nuova disciplina non vi è più alcun riferimento alle soglie, ma il legislatore ha ritenuto corretto introdurre l'art. 2621-bis c.c. per punire meno severamente i fatti di lieve entità e l'art. 2621-ter c.c. per stabilire che ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudice debba valutare, in modo prevalente, l'entità dell'eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis c.c..

Cosa siano in concreto i "fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero" o i "fatti di lieve entità" di cui si parla negli artt. 2621 e 2621-bis c.c., questo nessuno lo può affermare con assoluta certezza, per il semplice fatto che il termine "rilevanti e la locuzione "lieve entità" non sono determinabili in assoluto. D'altra parte, le valutazioni che tanto avevano creato problemi applicativi della previgente normativa erano tutte quelle opzioni soggettive, comunque riconducibili entro parametri certi, per cui le modifiche apportate con la nuova disciplina sembrano essere meno importanti di quello che si auspicava o si afferma.

Per quanto attiene, invece, alle "società quotate", si può affermare che le modifiche apportate dalla Legge n. 69 del 2015 hanno ampliato l'ambito di operatività dell'incriminazione delle false comunicazioni sociali, avendo comportato l'eliminazione dell'evento (danno) e delle soglie previste dal precedente testo dell'art. 2622 c.c., mantenendo invece nella sostanza identico il profilo della condotta tipica.

Toccherà agli operatori del diritto, in primis Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate e in secundis alla magistratura inquirente e giudicante, sobbarcarsi l'onere di dare il giusto peso ai fatti materiali rilevanti, ai fatti di lieve entità, alla particolare tenuità del fatto o al danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori.

Cum grano salis.

[1] Art. 157 c.p. - Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere

La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria

[2] Art. 1. Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo - Legge Fallimentare

Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici.

Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di fallimento o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

I limiti di cui alle lettere a), b) e c) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia, sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati intervenute nel periodo di riferimento.

[3] Art. 131-bis. Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto - c.p. (Articolo inserito dall'art. 1, comma 2, D.lgs. 16 marzo 2015, n. 28)

Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

L'offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità, ai sensi del primo comma, quando l'autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all'età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

Il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Ai fini della determinazione della pena detentiva prevista nel primo comma non si tiene conto delle circostanze, ad eccezione di quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale. In quest'ultimo caso ai fini dell'applicazione del primo comma non si tiene conto del giudizio di bilanciamento delle circostanze di cui all'articolo 69.

La disposizione del primo comma si applica anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante.

(1) Articolo inserito dall'art. 1, comma 2, D.lgs. 16 marzo 2015, n. 28.

[4] Art. 223. Fatti di bancarotta fraudolenta - L.F.

Si applicano le pene stabilite nell'art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo.

Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell'art. 216, se:

1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile;

2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.

Si applica altresì in ogni caso la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 216.


[5] Art. 3 Costituzione

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.



[6] Art. 25 Costituzione

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.

Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.



[7] Art. 24 Costituzione

Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.

[8] Art. 27 Costituzione

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

[9] Art. 76 Costituzione

L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti

[10] Art. 117 Costituzione

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

[11]Art. 2639 c.c. -. Estensione delle qualifiche soggettive.

Per i reati previsti dal presente titolo al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.

Fuori dei casi di applicazione delle norme riguardanti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, le disposizioni sanzionatorie relative agli amministratori si applicano anche a coloro che sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi.

[12]L'ingiustizia del profitto oggetto del dolo specifico consiste in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l'autore intenda conseguire, il quale non si collega ad un diritto ovvero che è perseguito con uno strumento antigiuridico o con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso. (Cass. pen., Sez. V, 02.12.2011, n. 14759)


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