L'uomo aveva deciso di rinchiudere la figlia in un capannone perché non condivideva le sue scelte amorose

di Lucia Izzo - Condannato per sequestro di persona il padre che rinchiude la figlia in un capannone perché contrasta le sue scelte sentimentali. 

Concordano Tribunale e Corte d'Appello sulla pena in ordine al reato previsto all'art. 605 c.p., commi 1 e 2, n.1, da infliggere ad un uomo, originario dell'Egitto, colpevole di aver tenuto la figlia prigioniera in un capannone poiché osteggiava le sue scelte amorose "non conformi ai voleri familiari". 


Anche i giudici della Suprema Corte di Cassazione, VI sez. penale, con la sentenza n. 39197/15 (qui sotto allegata) decidono per l'inammissibilità del ricorso presentato dal padre, stante l'inconsistenza delle censure da costui prospettate. 


L'uomo ricostruisce i fatti in maniera assai diversa rispetto a quanto stabilito dai giudici di merito, precisando che la scelta di vivere all'interno del capannone è in realtà da attribuire alla volontà della figlia. L'uomo evidenzia che dall'interno del luogo era possibile uscire tranquillamente aprendo la porta, ma egli provvedeva a chiuderla dall'esterno solo perché la serratura interna era rotta. 

La volontà di non segregare la figlia sarebbe desumibile anche dalla circostanza che l'uomo era solito gettarle le chiavi all'interno. 


Per i giudici appare determinante a dimostrare che la persona offesa fosse prigioniera contro la sua volontà nel capannone innanzi indicato, senza possibilità di uscirne, la testimonianza del carabiniere che avrebbe trovato la donna rinchiusa che piangeva ed urlava. 

Il teste verificava che per consentire alla ragazza di uscire era stato necessario attendere l'arrivo del padre perché la porta, una volta chiusa dall'esterno, non poteva essere aperta dall'interno. 

Inoltre, le fotografie acquisite agli atti mostravano che le finestre del capannone erano dotate di sbarre e il luogo inidoneo ad essere adibito ad abitazione, contraddicendo la tesi difensiva sul consenso prestato dalla persona offesa ad essere rinchiusa nel capannone, da cui poteva uscire solo per volontà del genitore. 


Precisano gli Ermellini che, anche avvalorando la versione difensiva dei consenso della persona offesa, ciò non sarebbe sufficiente ad escludere la configurabilità del delitto di sequestro di persona

Sul tema si ritiene rinunciabile, in nome di convinzioni religiose, una certa sfera della propria libertà personale, nonostante sia un bene costituzionalmente protetto, ma solo quando, tra l'altro, il consenso non sia viziato da violenza o minaccia. 

Nel caso in esame il consenso non risulta liberamente prestato o mantenuto, in quanto si inserisce in un contesto vessatorio, avendo riscontrato i giudici di merito reiterati comportamenti dell'imputato volti ad esercitare una indebita pressione psicologica nei confronti della figlia, insultandola e sottraendole il permesso di soggiorno ed il passaporto. 


L'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, ai fini della privazione della libertà rilevante per la configurabilità dei reato di sequestro di persona, non richiede una privazione assoluta, essendo sufficiente anche una relativa impossibilità di recuperare la propria libertà di scelta e di movimento. 

Il reato è anche configurabile quando il soggetto passivo riesca a riappropriarsi della propria libertà, dopo una privazione giuridicamente apprezzabile che segna il momento consumativo del sequestro. A tal fine può bastare anche una privazione della libertà limitata a un tempo anche breve, anche limitato ad alcuni minuti. 


Rigettato il ricorso, l'uomo è condannato anche al pagamento delle spese. 

Cass., VI sez. penale, 39197/15

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