Avv. Barbara Pirelli del Foro di Taranto; email: barbara.pirelli@gmail.com

"La vera trasgressione è fare una famiglia e mettere al mondo dei figli. Ci vuole impegno e coraggio, soprattutto per le donne". Non lo ha detto un sociologo e neppure uno psicologo della famiglia. Lo ha detto  un cantante che è diventato anche uno dei principali simboli della trasgressione, della vita spericolata. Lo ha detto Vasco Rossi e  dobbiamo riconoscere che le sue parole sono una grande verità.

Nell'immaginario collettivo la donna rappresenta l'angelo del focolare, dolce, premurosa, affettuosa e materna ma questa non è sempre una regola.  Ci sono anche donne che con il loro comportamento rischiano di creare danni all'interno delle famiglie e come sempre a farne le spese sono i figli.

Stiamo parlando della cosiddetta sindrome da alienazione genitoriale conosciuta anche come PAS.

Si tratta della la "distruzione della figura di uno dei due genitori ad opera di quello presso il quale i figli erano stati collocati" (Vedi: PAS - Sindrome Alienazione Genitoriale - La 'sceneggiata' di Cittadella e la Sentenza della Cassazione del 20.03.2013, n° 7041).


La vicenda giudiziaria di cui si è occupata la Corte di Cassazione (decisa poi con la sentenza n. 7452 del 2012)

vede come protagonista una madre ritenuta alienante e poi condannata a risarcire i danni in favore del marito.

In particolare, il Tribunale a cui si era rivolta la coppia disponeva l'affidamento condiviso della figlia minore e individuava la madre quale genitore collocatario. 

Inoltre, il Tribunale riteneva fosse obbligatorio un percorso di mediazione familiare per i genitori e disponeva la sospensione del diritto di visita per il padre, dato il rifiuto opposto dalla figlia.Inoltre, dopo aver quantificato l'importo dell'assegno di mantenimento condannava, ex art. 709 ter c.p.c., la madre al risarcimento del danno in quanto ritenuta responsabile della sindrome da alienazione genitoriale da cui era affetta la figlia. 

Il risarcimento era stato chiesto non solo nei confronti della figlia ma anche dall'ex  marito.

La donna ricorreva in Appello chiedendo la revoca della condanna risarcitoria e l'affidamento esclusivo della figlia; il marito, resistendo, chiedeva a sua volta l'affidamento esclusivo.

La Corte territoriale accoglieva il ricorso solo in parte, revocando la condanna al risarcimento in favore della figlia e riducendo quello a favore del marito.

Il giudizio approda in Cassazione e qui incontra il rigetto da parte degli Ermellini.

La Suprema Corte ha ritenuto che le accuse mosse dalla moglie all'ex marito erano state sconfessate dalle relazioni che i professionisti avevano presentato nei precedenti gradi del giudizio, rilevando la sindrome da alienazione parentale diagnosticata alla figlia.

La donna nel ricorso faceva rilevare che  la Corte d'appello si era basata sulla consulenza tecnica di ufficio effettuata da una psicologa e non da un medico psichiatra; in merito a ciò la Corte sosteneva che nessuna norma impone di affidare a medici piuttosto che a psicologi le consulenze tecniche riguardanti disturbi psicologici, mentre la verifica della concreta qualificazione dell'esperto a rendere la consulenza è compito esclusivo del giudice di merito.

Veniva rilevato che i giudici di merito, senza alcuna motivazione, avevano omesso di disporre l'audizione obbligatoria della minore; la Suprema Corte ha spiegato,invece, che la questione dell'omissione e dell'ascolto della minore non era stata sollevata dalla ricorrente nel giudizio di appello (o almeno ciò non risultava né dalla sentenza impugnata né dallo stesso ricorso per cassazione), quindi, questo motivo era considerato inammissibile.

La ricorrente lamentava, inoltre, che era stato omesso l'esame della relazione del consulente tecnico di parte prodottanel giudizio di appello; i giudici hanno ritenuto questa censura generica difettando della specificazione del contenuto.

Si contestava, ancora, che la smentita delle affermazioni della neuropsichiatra circa la possibilità dell'abuso sessuale commesso dal padre sulla figlia era stata motivata, dalla Corte d'appello, con il richiamo non già della sentenza di primo grado, bensì di altro atto del processo quale la consulenza tecnica di ufficio.

La Suprema Corte precisava che ben può il giudice di appello rilevare per relationem richiamando il contenuto della consulenza tecnica di ufficio.

La donna sottolineava che i giudici di merito avevano omesso di rilevare che il marito non aveva sporto denuncia per calunnia nei confronti della ricorrente, né i giudici stessi avevano disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, né quest'ultima aveva comunque aperto un procedimento contro di lei.

Infine, riteneva che la condanna risarcitoria ai sensi dell'art. 709 ter  era infondata, giacché il padre si era reso quantomeno corresponsabile della situazione, con la sua condotta passiva e inerte, e aveva subito anche condanna per ingiurie, lesioni e minacce nei confronti della moglie.

In merito a queste doglianze, la Corte riteneva che le censure della ricorrente integravano pure e semplici critiche di merito, inammissibili in sede di legittimità.

Per tutte queste ragioni il ricorso non trovava accoglimento.

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