Con la legge n. 189/2012 il legislatore è intervenuto in materia di riforma delle professioni sanitarie e in specie, con le disposizioni contenute nell'art. 3, in tema di responsabilità medica
di Antonio Baudi - Come da impegno assunto mi sono sforzato di tradurre in un testo articolato i punti salienti qualificanti l'intervento che da relatore ho svolto sul tema assegnatomi "La legge n. 189/2012: dalla graduazione della colpa alla depenalizzazione" nel convegno organizzato, in data 23 marzo, dalla ASP di Crotone, i cui atti meriterebbero una degna pubblicazione per l'ampiezza e la qualità degli argomenti analizzati. La problematica della responsabilità sanitaria è imponente e gli approfondimenti scientifici e giurisprudenziali che ne seguiranno saranno senz'altro più meditati e fecondi. Affido alla bonaria riflessione dei lettori le note che seguono.

Con la legge n. 189/2012 il legislatore è intervenuto in materia di riforma delle professioni sanitarie e in specie, con le disposizioni contenute nell'art. 3, in tema di responsabilità medica. Sarebbe auspicabile, e sottinteso, trattare di "responsabilità" nel senso fisiologico del termine, riferito a professionalità che operano "responsabilmente", con massima diligenza, prudenza, perizia, giusto per evocare le fondamenta della colpa e la rilevanza di concetti normativi che si riferiscono, patologicamente, a sanitari in concreto privi di coscienzioso ed avveduto operare.

Non può essere trascurato che la professione sanitaria coinvolge il massimo bene della salute fisiopsichica rispetto al quale è vincolata nel fine e, nel rispetto di una lettura appropriata dell'autonomia professionale, che alimenta la libertà e la creatività scientifica, relativamente vincolata nei mezzi. Si tratta di un'attività lecita, anzi consentita, anzi autorizzata mediante abilitazione e iscrizione all'albo, per di più socialmente utile e giuridicamente doverosa, a livello tale che, a fronte di un'esigenza terapeutica, il dovere di impedire l'evento infausto è impellente, perché anche una speranza flebile, percentualmente minimale, va pretesa dal paziente ed assecondata senza incertezze.

Gli è che, coinvolgendo beni quali la vita e l'incolumità fisica, l'attività è indubitabilmente pericolosa, intrinsecamente contraddittoria nel convergere di due doveri divergenti e conflittuali: quello di agire per curare e quello di evitare (quindi astenersi da) la realizzazione di eventi lesivi riconoscibili, rappresentabili e prevenibili. Si tratta, a ben riflettere, di un astenersi dal produrre eventi indesiderati e non di non astenersi dall'operare, che anzi si impone il dovere (attivo) di adoperare i mezzi più idonei per il fine (positivo) di guarire e (negativo) di non provocare o aggravare malattie fino al limite mortale. In funzione di tale livello di interessi penalmente rilevanti la pretesa normativa non funzione in chiave imperativa, perché non avrebbe senso imporre al sanitario di non ledere e, all'estremo, di non uccidere. La regola, se si vuole di ampia matrice (religiosa, etica, professionale, giuridica) pretende altro: il comportarsi in modo da evitare l'evento dannoso mediante l'adozione di ogni misura idonea ad evitare il rischio o a contenerlo nei margini del socialmente lecito, perché, oltrepassando tale limite, rileva la condotta colposa.

In proposito è risaputo che in ambito penale il professionista sanitario non è soggetto ad una disciplina speciale ma rientra nel "chiunque" destinatario indifferenziato del precetto penale. La responsabilità penale, da sempre regolata dal codice del 1930, si è evoluta nel tempo. Inizialmente si è stabilmente orientata in funzione di un atteggiamento dichiaratamente indulgente che ha esonerato da responsabilità i giudicabili non incorsi in errori grossolani per carenza di un minimo di cultura e di esperienza propria dell'abilitazione medica, orientamento che ha livellato i profili di imperizia negligenza ed imprudenza, sul presupposto della loro problematica differenziabilità concettuale.

Successivamente è intervenuta la sentenza della Corte Costituzionale n. 166/1973, che ha limitato la punibilità per colpa grave all'imperizia derivante da errore inescusabile chiarendo che "la particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli artt. 589 e 42 c.p., in relazione all'art. 2236 c.c., per l'esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata da due opposte esigenze, quella di non mortificare l'iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso".

Si evidenzia incidentalmente che i casi difficili ex art. 2236 c.c. vanno valutati con criteri meno rigidi quando:

1) vi sia incertezza sull'eziopatogenesi, evoluzione, efficacia terapeutica;

2) si tratti di caso clinico inedito;

3) la sintomatologia sia equivoca (anamnesi; approfondimento clinico e strumentale);

4) se in presenza di concomitanti patologie e di particolari stati soggettivi vi sia incompatibilità tra terapie occorrenti.

La pronuncia, interpretativa di rigetto, è stata, nella pratica, disattesa al motivato fine di evitare disparità di trattamento tra professioni ed inoltre per l'affermata autonomia del settore penale che intende perseguire in ogni caso la colpa lieve e stante anche l'eccezionalità della norma civile, come tale non estensibile per analogia. Nel tempo l'orientamento è stato revisionato nel senso che la sussistenza della colpa professionale del sanitario deve essere valutata con larghezza e comprensione, per le peculiarità dell'esercizio dell'arte medica e per le difficoltà dei casi particolari, ma pur sempre nell'ambito dei criteri dettati, per la individuazione della colpa medesima, dalla norma dell'art. 43 c.p., per cui l'accertamento non può essere effettuato in base agli elementi dettati dall'art. 2236 c.c., la cui applicazione non può avvenire con interpretazione analogica, perché vietata per il carattere eccezionale della disposizione rispetto ai principi generali ex artt. 1176, 1218, 2043 c.c.. Essa è inoltre esclusa per la sistematica disciplina del dolo e della colpa in diritto penale; il grado della colpa è infatti previsto soltanto come criterio per la determinazione della pena ex art. 133 c.p. o come circostanza aggravante ex art. 61 n. 3 c.p., ma in nessun caso per determinare la stessa sussistenza dell'elemento psicologico del reato per cui il minor grado di colpa non può avere giammai efficacia discriminante. In sintesi e di recente: "Nella valutazione in ambito penale della colpa medica non trova applicazione il principio civilistico della rilevanza soltanto della colpa grave, la quale assume eventuale rilievo solo ai fini della graduazione della pena" (cfr. Cass. pen., sez. IV, 28/10/2008, n. 46412). La tesi è stata da più fonti criticata perché la norma di cui all'art. 2236 c.c. non è stata ritenuta di portata derogatoria, anzi applicativa di principi, e, in ultima analisi, espressiva di una regola di principio, dettata dalla ragione; per di più si è detto che l'art. 2236 non determina un grado particolare di colpa ma impone al giudice di valutare la condotta in rapporto al livello di difficoltà del caso, comportante una maggiore scusabilità e una più ampia area del rischio "consentito".

In tema di colpa grave occorre però evidenziare l'orientamento non certo indulgente della Corte dei conti che, in ragione del rilievo e della particolarità dell'attività svolta, ha statuito che, per integrare il requisito della colpa grave nell'esercizio dell'arte medica non è necessaria una macroscopica svista, ma è sufficiente la carenza di un adeguato livello di diligenza professionale (Corte Conti reg. Veneto, sez. giurisd., 12/07/2002, n. 544). La categoria sanitaria, scossa da casi anche clamorosi di malasanità, sempre più esposta a processi e ad insostenibili esborsi risarcitori, ha espresso il generale "profondo disagio per le condizioni di lavoro sempre più difficili, stretti tra continua richiesta di sacrifici economici, carichi di lavoro accresciuti, burocrazia, attenzione concentrata sui budget". E, soprattutto, per l'esplosione del contenzioso medico "grazie anche alle campagne realizzate da team di avvocati che invitano e facilitano la denuncia". Si è sollecitata la riforma diretta a migliorare la prevenzione del rischio, facilitando i risarcimenti veloci ed extragiudiziali ai cittadini, e soprattutto depenalizzando la colpa medica, con regole giuste che tutelino sia i pazienti, sia i camici bianchi". Si è già trattato in una precedente nota della limitata portata della riforma introdotta dal decreto-legge 158/2012 e così puntualizzata:

- salvezza della responsabilità per (sola) colpa grave in caso di imperizia rispetto ai casi difficili, ex art. 2236 c.c.;
- valutazione della diligenza misurata nel rispetto della natura dell'attività svolta, ex art. 1176 c.c.;
- particolare rilevanza, nell'accertamento in concreto della colpa lieve nell'attività dell'esercente le professioni sanitarie, dell'osservanza delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.
In sintesi: la disposizione, per il tempo della sua breve vigenza, nel salvaguardare la disposizione speciale di cui all'art. 2236 c.c., interferisce con la criteriologia della colpa sanitaria contrattuale, come è agevole desumere anche dalle regole testualmente evocate, ed ha imposto al giudice civile, tenuto a decidere sulla diligenza del sanitario, di tener conto "anche" di ulteriori determinati parametri. Come si è già sottolineato la innovazione è parsa prudenziale e timida al punto che è stata stravolta in sede di conversione. Autorevoli esponenti degli Ordini professionali hanno sollecitato un intervento "più radicale ed incisivo", tale da "invertire" sia l'orientamento dominante della giurisprudenza che lo stesso onere della prova, perché, si è detto, "oggi tocca al medico dimostrare di aver fatto ogni cosa per assicurare l'esito migliore, ma è proprio questo ad alimentare la medicina difensiva". L'innovazione legislativa è nota e si articola su tre alinea: (a) irresponsabilità penale per colpa lieve del sanitario che opera nel rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica"; (b) persistenza "in tali casi" dell'obbligo risarcitorio per responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.; (c) rilevanza, nella determinazione del risarcimento del danno, della condotta di cui al primo periodo.
A fronte di una lettura apparentemente semplice ed immediata, insorgono quesiti problematici in serie.
A) Sul piano soggettivo la norma è riferita alla categoria sanitaria nella sua generale ampiezza. I sanitari sono destinatari di un onere, cioè dell'osservanza di un comportamento obbligato nell'interesse proprio, così formulato: se si vuole essere esonerati da responsabilità penale per colpa lieve bisogna adeguarsi alle disposizioni prescritte nelle linee guida e nelle buone pratiche scientificamente accreditate. Poiché risalta il tema della responsabilità penale destinatario criptico è il giudice penale, tenuto a verificare se il sanitario abbia applicato nel caso concreto siffatte regole e, in caso positivo, non dichiararlo responsabile per colpa lieve. I due successivi periodi si rivolgono al giudice civile, tenuto ad accertare, in tali casi (dunque: in caso di mancata condanna per responsabilità penale colposa lieve), la responsabilità a titolo extracontrattuale ed a quantificare il danno nel rispetto della condotta osservante.
B) Si è in presenza di una disciplina speciale, in tal modo ponendo un problema di equilibrio e di ragionevole discriminazione rispetto alle posizioni di genere.
C) Particolarmente importante, sotto svariati profili, è il tema delle linee guida. Il legislatore ha inteso conferire maggiore determinatezza alla fattispecie colposa, operando un riconoscimento normativo, mediante rinvio, alle regole operative sanitarie di tipo cautelare, che fungono da parametri di valutazione del comportamento professionale. La prima novità consiste nel fatto che siffatti criteri comportamentali hanno assunto specifico risalto normativo e, nello specifico, rilievo nell'ambito del giudizio sulla colpa sanitaria, quali componenti della premessa maggiore, che in primis il sanitario, si reputa, debba evidenziare all'interno del consenso informato e debba quindi utilizzare come regola operativa; ma ancora: componenti delle premesse maggiori per il giudizio dei soggetti del processo, giudici, pubblici ministeri, difensori, parti private, periti e consulenti. Rileva, con l'esigenza di maggiore determinatezza formulatoria della colpa, l'esigenza di rendere più stabile e uniforme il relativo giudizio valutativo. Colpa, in sintesi, è l'addebito di leggerezza che si muove nei riguardi di un soggetto per aver realizzato involontariamente, ma a causa di violazione di una regola cautelare, un fatto di reato che sarebbe stato evitato mediante l'osservanza di quelle prescrizioni, esigibile dal medesimo soggetto. L'analisi strutturale è triplice e si incentra: sulla involontarietà del fatto di reato; sul comportamento antidoveroso, ragguagliato al tipo di attività ed al tipo di agente); sull'attribuibilità all'agente. Più specificamente nella valutazione di antidoverosità della condotta rilevano regole non scritte, la cui fonte è generica, e regole scritte, la cui fonte è specifica. In tale secondo ambito si collocano significativamente le linee guida, sicuramente regole disciplinari scritte; vi si abbinano le buone pratiche, che sia pur di genesi fattuale e di natura induttiva, conseguono una formalizzazione mediante l'approvazione in sede scientifica. Stante la natura di siffatte regole e la qualità della fonte produttiva ne consegue una riduzione di ambito della colpa generica ed una parallela dilatazione della sfera di incidenza della colpa specifica. Pare semplice (e semplicistico) rammentare che siffatte regole hanno carattere oggettivo e devono essere identificate secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità, alla stregua della migliore scienza ed esperienza del settore specifico, sempre avuto riguardo al momento storico in cui la condotta è stata realizzata. Ma, pur a fronte di una esigenza di conoscibilità, chiarezza, completezza, univocità, la loro concreta individuazione è problematica. Per di più va sottolineato che, rispetto al testo riformato, è stata soppressa l'aggettivazione "nazionale ed internazionale" ed occorre chiedersi se la soppressione abbia inteso elidere una superfetazione, in virtù del rilievo che la comunità scientifica non può essere selezionata per la sua nazionalità e perché non può che riferirsi ad una disciplina di ordine consolidato, quindi di portata generale e di riconoscimento generalizzato. All'inverso, la notoria varietà delle linee guida, formulabili in un determinato ambito scientifico ed al limite, all'interno di una specifica struttura, non può che ingenerare notevole variabilità di giudizio e grave incertezza ermeneutica. In ogni caso si impone un aggiornamento continuo della categoria anche in termini di specifica abilità operativa. Né può essere ignorato che siffatte regole, fino alla soglia della riforma valutate come (mere) raccomandazioni, solo ben lungi dall'essere rigide e convivono con la discrezionalità professionale. E se fino alla soglia della riforma il rispetto della regola o il mancato rispetto assumeva valore di indizio, in positivo o in negativo, a seguito della riforma, il richiamo normativo, privilegiando la fonte, accentua la natura di vincolo di condotta, rinfocolando l'irrisolto conflitto tra giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi. Per altro la pretesa standardizzazione del comportamento professionale, se giova sul piano generale, svalorizza la discrezionalità e la stessa innovatività culturale della pratica sanitaria in nome di una livellata tipicità della malattia e del trattamento sanitario, che trascura la atipica soggettività del malato. Senza contare che, in presenza di linee guida che impongono il contenimento della spesa, resta compromesso o almeno degradato il primario valore della salute.
D) Residua il non trascurabile problema dell'esonero da responsabilità penale per colpa lieve. Il primo interrogativo è apparente: ci si è chiesti per un verso se abbia senso porre un problema di colpa penale, dal momento che l'operatore ha agito nel rispetto delle buone regole sanitarie. Sarebbe stato coerente disporre che il sanitario rispettoso delle regole non risponde penalmente per colpa. Per altro verso verrebbe da sostenere che l'aggiunta dell'aggettivo "lieve" al sostantivo "colpa", se non è da reputarsi qualificazione superflua, potrebbe legittimare, con argomento a contrario, che lo stesso operatore, pur rispettoso di quelle regole, potrebbe essere esposto a responsabilità per colpa grave, soluzione che letteralmente rasenta l'assurdo. La lettura dell'alinea successivo incrementa il rilievo perché, rimasta impunita la responsabilità per colpa lieve, sopravvive comunque la responsabilità civile per colpa lieve, se pur nell'ambito della responsabilità aquiliana: a parità di "parametro" parrebbe difficile la configurabilità di un rimprovero per colpa civile. Incidentalmente occorre rilevare che pare sorprendente l'evocazione della responsabilità civile extracontrattuale, per i suoi, non di poco momento, risvolti normativi, in specie in punto di onere della prova, senz'altro più gravosi per il paziente, per sua natura senz'altro contraente debole. La sorpresa si alimenta dopo la lettura del terzo alinea, che, da un lato, pare delimitare l'entità risarcitoria ai soli danni patrimoniali, in assenza del rinvio al disposto dell'articolo 2059 c.c., e, per di più, pretende di incidere sul quantum della riparazione, ragguagliato alla misura del grado di colpa. Gli è che, dovendosi attribuire sensatezza alla disciplina, il legislatore si è prefissato che, nonostante il rispetto delle linee guida, l'intervento sanitario abbia avuto l'esito non sperato sicché emerga un addebito per colpa, a questo punto di natura generica. In siffatta evenienza scatta l'esonero da responsabilità penale per colpa se lieve. Ci si chiede allora quale natura abbia siffatta esenzione, cioè se si sia in presenza di un fatto antigiuridico non colpevole oppure se, in presenza di un reato completo nella sua struttura di torto colpevole, si tratti di una causa speciale di non punibilità. Certo è che, quale che sia la natura (problematica) di siffatta esimente penale, opera con certezza la retroattiva incidenza sui giudizi in corso secondo la corretta interpretazione assunta dalla Corte suprema con sentenza n. 268/2013 emessa all'udienza del 29 gennaio 2013. Ed è ancora certo che, in mancanza di un giudizio di responsabilità penale, non può essere esaminata nel merito la pretesa civile azionata nella medesima sede penale.
E' prevedibile che in sede penale il tema della misura della colpa sarà esasperato potendosi supporre che il sanitario, non solo possa essere esposto a contestazione per colpa cosciente, ogni qual volta si prospetti il rischio professionale, ma di colpa grave penale. Il tema della graduazione della colpa, scarsamente rilevato non tanto per un vecchio e diffuso scetticismo sulla possibilità di graduare la colpa (tant'è che si è ritenuto che il giudizio sia largamente condizionato da intuizioni emotive), quanto per l'assenza di criteri rigorosi di valutazione, ora assume rilevanza di primo piano, incidendo sull'an della punibilità stessa. E, d'altro lato, è prevedibile, nell'incertezza sulla qualificazione della colpa, il diretto ricorso al giudizio civile, ma con l'incidenza problematica della disciplina della responsabilità aquiliana.

Antonio Baudi

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