Dire al datore di lavoro "lei non capisce un cavolo", ovviamente nella versione più colorita, è reato. È quanto ricorda la Corte di Cassazione, che con la sentenza 234/2013 ha rimesso in discussione un precedente verdetto di assoluzione che un giudice di pace aveva 'concesso' ad un lavoratore di 66 anni che, a ragione o a torto, si era così rivolto al proprio capo nel corso di un'animata discussione.

Secondo il giudice di pace non ci sarebbe stato alcun reato dato che quell'espressione è ormai entrata a far parte del "gergo comune", al punto da non potersi considerare offensiva ma come avente l'unico scopo di "comunicare in modo efficace il proprio dissenso".

Di diverso avviso la Procura, che ha invece presentato ricorso in Cassazione sostenendo che la frase non poteva che assumere una valenza ingiuriosa manifestandosi come una "volgare affermazione di incompetenza" proprio perché "collocata nell'ambito di quella discussione".

Nella sua motivazione la Corte ha spiegato che "al di là della questione sull'attuale appartenenza o meno al parlare comune del termine volgare riportato nell'espressione contestata, è invero l'espressione stessa, letta complessivamente e nel contesto in cui veniva pronunciata, ad assumere carattere ingiurioso laddove vi veniva rimarcata con particolare asprezza di tono, e nel corso di una discussione di lavoro, l'incompetenza della persona offesa nella materia oggetto di discussione".

Secondo i giudici di Piazza Cavour, quanto dichiarato dal lavoratore nel corso della discussione esorbitava "dalla mera manifestazione di un contrasto di opinioni fra l'imputato e la parte offesa, presentandosi viceversa quale offesa all'onore professionale di quest'ultima in quanto tale".

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