La Corte di Cassazione è recentemente tornata sulla questione dei limiti alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale nei casi di convivenza prolungata fr

La Corte di Cassazione è recentemente tornata sulla questione dei limiti alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale nei casi di convivenza prolungata fra gli sposi. Con la pronuncia n. 1621/2015 del 28 gennaio scorso, gli Ermellini ribadiscono infatti il principio - espresso compiutamente dalla stessa corte a sezioni unite nella sentenza 16379/2014 - secondo cui, per ragioni di ordine pubblico interno, la convivenza ultratriennale dalla data di celebrazione delle nozze opera come elemento ostativo al riconoscimento della nullità canonica del vincolo di coniugio.

Nella fattispecie decisa con il provvedimento in questione, P., dopo aver ottenuto sentenza rotale dichiarativa di nullità del matrimonio, conveniva la moglie A. dinanzi la Corte d'Appello di Perugia per assistere alla pronuncia della sentenza italiana di delibazione. Ma i giudici perugini hanno detto no alla trasposizione in sede civile degli effetti della pronuncia del Tribunale Ecclesiale. E la Cassazione non ha potuto fare altro che confermare tale sentenza di merito.

Come si evince, infatti, dalle motivazioni della decisione di terzo grado, fattori impeditivi all'annullamento del vincolo sono stati da un lato: a) la convivenza di lunga data, tale da lasciar immaginare una "acquiescenza" alla prosecuzione del rapporto e una volontà di sanare il vizio originario che lo affliggeva e (stante a)) b) la circostanza che la controparte fosse tutt'altro che favorevole alla richiesta di delibazione (tanto che presentava controricorso presso la Corte di Cassazione) e, a suo dire, anche inconsapevole della riserva mentale (il "vizio") del marito al momento della celebrazione delle nozze.

La ratio della non annullabilità automatica dei matrimoni caratterizzati da una stabile e prolungata vita in comune - magari coronata dalla nascita di uno o più figli - è da ricercarsi e nella volontà del legislatore di dare certezza e stabilità al matrimonio-rapporto quale situazione giuridica discendente da un atto di autonomia negoziale (vedi a questo proposito i principi della conservazione del contratto e tutela della buona fede), e nell'esigenza di garantire la parte debole - in questo caso la moglie - che vedrebbe fortemente affievolita la propria tutela per effetto di una pronuncia civile di annullamento rispetto a quanto accadrebbe invece con una sentenza

di separazione e/o di divorzio: gli artt. 129 - 129bis c.c. riconoscono infatti solo un limitatissimo trattamento economico al coniuge meno abbiente ad esito dell'annullamento.

E del resto, l'elemento puramente psichico (ex. la riserva mentale di uno dei nubendi riguardo l'indissolubilità del vincolo ovvero l'obbligo di fedeltà etc.), qualora rimanga a livello di mera intenzione inespressa - a maggior ragione se misconosciuta all'altro coniuge - non può trovare rilevanza nell'ordinamento civile interno.

Volendo raffrontare brevemente tale pronunciamento con quello di cui alla sentenza 27 gennaio n.1495/2015 (vedi) - decisivo di analoga questione, ma in senso opposto - si nota come il principio del "limite dei 3 anni" (mutuato dalla disciplina delle adozioni, ma assurto a principio di rango generale, indipendentemente dalla eventuale presenza di figli) resti in sostanza confermato, e anzi ribadito dai supremi giudici, in entrambi i giudizi. La differenza essenziale fra i due casi sta nel fatto che nell'uno vi era una domanda di delibazione unilaterale (peraltro proveniente dalla parte "forte" del rapporto), mentre nell'altro era pacifico l'accordo comune dei due coniugi che avevano appunto presentato un ricorso congiunto.

Cassazione civile, testo sentenza del 28 gennaio 2015, n. 1621

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