Nel valutare le dichiarazioni della persona offesa la Corte di Appello ha messo in evidenza come si trattasse di persona attendibile le cui dichiarazioni sono risultate credibili
Per provare il reato di stalking possono bastare le dichiarazioni della vittima. Lo dice la Corte di Cassazione (quinta sezione Penale, Sentenza n. 46510/2014), che ha così confermato una sentenza di condanna per il reato di cui cui all'art. 612 bis del codice penale.  


La corte d'appello di Palermo, allineandosi al verdetto del giudice di primo grado, aveva messo in evidenza come la persona offesa dal reato avesse riferito di condotte ossessive dell'imputato che avevano "sensibilmente inciso sulle sue abitudini di vita, facendola impaurire e creandole angoscia e timore".


Nel valutare le dichiarazioni della persona offesa la Corte di Appello ha messo in evidenza come si trattasse di persona attendibile le cui dichiarazioni sono risultate credibili non sono emersi elementi tali da poter mettere in discussione la verosimiglianza del suo racconto.


La motivazione assunta dai giudici di merito, spiega la Cassazione, riflette il principio di diritto secondo cui "in tema di atti persecutori, la prova dell'evento del delitto in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l'evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata".


La vittima dopo la chiusura della relazione, aveva continuato a ricevere lettere, telefonate e messaggi dall'ex compagno con insulti e minacce. L'uomo era ossessionato dalla convinzione che  la donna avesse voluto interrompere la relazione per via di un legame con l'ex fidanzato e la donna, alla fine, aveva deciso di presentare querela.


Nel corso del procedimento una delle testimoni aveva anche riferito che l'imputato una volta era entrato nella casa della ex compagna nella sua abitazione, avendo trattenuto una copia delle chiavi, e che, in un'altra occasione, si era avvicinato alla vittima "mentre questa era in auto e, aperto lo sportello, l'aveva afferrata per farla scendere fino a quando la persona offesa non aveva iniziato ad urlare".

Si rimanda, per un approfondimento, al testo della sentenza qui sotto allegato.


Codice penale - Art. 612 bis - Atti persecutori.
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumita' propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all'articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio.

Cassazione Penale, sentenza 11 novembre 2014, n. 46510

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