di Paolo M. Storani - (terza parte; le prime due sono state pubblicate il 27 aprile ed il 2 maggio 2014) Terzo appuntamento con la lesione della reputazione ed incursione nel mondo innovativo dei social network; l'occasione che ci dà Cass. Pen., Sez. I, 16 aprile 2014 (ud. 22.1.2014), n. 16712 (Pres. M. Cristina Siotto e Rel. Lucia Posta) è troppo ghiotta per non aprire una finestra informativa su Facebook e dintorni.

All'interno dei dati personali del proprio profilo un maresciallo capo della Guardia di Finanza pubblicava la seguente frase: " ...attualmente defenestrato a causa dell'arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo ...ma me ne fotto ...per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie".

Di per sé una frase volgarotta, carica di rabbia e di rancore nei confronti del collega, con chiusa ... machista, come ne sentiamo tantissime in giro.

Ma i tempi, si sa, sono mutati ed i criteri del nostro diritto penale cambiano con essi.

Uno direbbe: affari loro se non venisse chiamata in causa anche la malcapitata signora in una logica reificante (degradata a cosa da danneggiare o simbolo da profanare) del tipo "gli buco una gomma!"

Si sa che nei luoghi di lavoro, e dunque anche tra appartenenti allo stesso corpo istituzionale, sovente covano rancori e scattano meccanismi insondabili di conflittualità.

Ma, c'è un ma!

Nella fattispecie decisamente borderline viene ravvisata la lesione della reputazione (ed è per questa ragione che ce ne occupiamo in questa terza puntata del nostro viaggio all'interno della complessa materia: ci serve per mobilitare altre riflessioni dopo quelle sviluppate nei due articoli del 27 aprile 2014 e del 2 maggio 2014) del destinatario dell'invettiva ed allora il Tribunale Militare di prima istanza condanna l'utente di Facebook

a titolo di diffamazione pluriaggravata alla pena di mesi tre di reclusione militare con le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti ed i doppi benefici.

Allora la Corte Militare di Appello che cosa fa? Riforma il verdetto del Tribunale di prime cure!

Assoluzione, quindi, perché il fatto non sussiste.

L'identificazione della persona offesa risultava possibile solo da una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti di Facebook.

L'imputato non aveva indicato il nome del suo successore, né la funzione di comando in cui era stato sostituito, né alcun riferimento cronologico.

Mancherebbe, quindi, la prova dell'intenzionalità della comunicazione con più persone in grado di individuare in maniera univoca chi fosse il destinatario delle espressioni diffamatorie.

Anche in questo caso dubbi e perplessità regnano sovrani.

Il solo avverbio "attualmente" con cui esordisce l'utilizzatore di Facebook rende indiscutibile che l'epoca è quella recente: come ha fatto allora la Corte di Appello a concludere per l'assenza di riferimenti cronologici Dio solo lo sa.

Eppoi, ma come?

A tacer del collegamento tra qualifiche negative ("leccaculo", "raccomandato") e subentro nel comando all'interno del corpo della compagnia della GdF, la frase era riportata nel profilo del social e, quindi, in modo evidente ed ampiamente accessibile. 

Pare, ma in proposito procediamo sulla sola scorta del testo della pronuncia della Prima Sezione degli Ermellini in quanto ignoriamo il contenuto degli atti processuali, si parlasse proprio del comando della Compagnia di San Miniato; ed allora si ha un bel dire ad affermare che l'identificazione non era possibile.

Era l'esatto contrario!

Infatti, l'imputato parla di "collega", il che equivale a pari grado.

Inoltre, il riferimento (assai volgare e maschilista) alla consorte, sta ad attribuirgli (al destinatario della diffamazione) la qualifica di sposato, ulteriore elemento identificativo.

Inoltre, all'interno della cerchia dei protagonisti non era affatto disagevole individuare il destinatario delle summenzionate espressioni. 

Abbiamo già cennato nelle precedenti puntate all'importanza del contesto su cui incide la lesione alla reputazione.

Ulteriore grado processuale: ricorso per cassazione ad opera del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Roma, presente all'udienza collegiale il Dott. Flamini che ha chiesto l'annullamento della sentenza d'appello perché la motivazione è illogica e contraddittoria in ordine alla natura del mezzo di pubblicità del social network.

Unico il motivo di impugnazione: l'offesa alla reputazione rilevante ai fini della diffamazione prescinde dalle conseguenze che possono derivare o siano in concreto derivate all'interessato.

Ciò che rileva, secondo il PM, è soltanto l'uso di frasi offensive.

Talché, la pubblicazione su internet di per sé ne ha determinato la conoscenza da parte di più persone, a nulla rilevando se in concreto siano state lette.

Scontato concludere che il S.C. abbia recepito il motivo di impugnazione del PM, richiamando anche Cass. Pen., Sez. V, 20 dicembre 2010, n. 7410 in ordine al reato di diffamazione, indipendentemente dall'indicazione nominativa dell'offeso.

Il ganglio del problema è la prova del dolo (che la legge richiede non specifico) dell'imputato nel comunicare con più persone in grado di individuare l'interessato - destinatario della frase a contenuto obiettivamente diffamatorio.

E', infatti, sufficiente, - perché si concretizzi il reato di diffamazione - la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che essa venga a conoscenza di più persone, anche solo due.

Sentenza annullata con ineccepibile rinvio ad altra Sezione della Corte Militare d'Appello che dovrà, alla luce dei predetti criteri, (ri)valutare la sussistenza dell'elemento soggettivo ed oggettivo della fattispecie contestata all'imputato.

MASSIMA di LIA Law In Action

La pronuncia è massimata alla voce "ingiuria e diffamazione - diffamazione col mezzo della stampa, della radio, del cinema, della televisione e di internet" nel modo che segue:

"Ai fini della configurabilità del reato di diffamazione non si richiede la sussistenza del dolo specifico, essendo sufficiente, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo, la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell'altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due (fattispecie relativa alla condotta di un membro della Guardia di Finanza che aveva pubblicato sul proprio profilo Facebook frasi irriguardose nei confronti di altro militare designato in sua sostituzione)". (fine terza puntata - la quarta verrà pubblicata quanto prima)

 

 

 

Vedi anche:
Facebook: ecco gli aspetti legali che ognuno dovrebbe conoscere
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