Fatali i messaggi e le foto rese pubbliche dall'uomo sul social network

di Marina Crisafi - Impulsivo e incurante di ogni conseguenza come ogni innamorato ha pubblicato una vera e propria confessione d'amore su Facebook, ma anche foto e messaggini teneri. Peccato però che la donna cui erano rivolti fosse l'amante.

Consequenziale l'addebito della separazione per aver non solo tradito la moglie, violando il dovere di fedeltà coniugale ma anche per aver reso pubblica la relazione sul social network con conseguente grave offesa alla dignità della donna.

Non ci sono dubbi per il tribunale di Roma (sentenza n. 456/2016 qui sotto allegata) nell'accogliere la domanda della stessa e attribuire l'intera responsabilità della fine della vita coniugale al marito.

È vero che, hanno premesso i giudici capitolini, richiamando la giurisprudenza di legittimità in materia, "grava sulla parte che richieda l'addebito della separazione all'altro coniuge l'onere di provare sia la contrarietà del comportamento di costui ai doveri che derivano dal matrimonio, sia l'efficacia causale di questi comportamenti nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza" (cfr. Cass. n. 14840/06; n. 12383/05); tuttavia, laddove la ragione dell'addebito sia costituita dall'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale, "questo comportamento, rappresentando una violazione particolarmente grave che determina normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, se provato, giustifica l'addebito della separazione al coniuge responsabile (cfr Cass. n. 8512/06; n. 13592/06; n. 25618/07; n. 21245/10).

E nella vicenda, può ritenersi perfettamente dimostrato sia dalla produzione documentale (foto e messaggi) che dall'istruttoria svolta che l'uomo avesse instaurato una relazione con un'altra donna rendendola finanche pubblica sul social network.

Al riguardo, anche i testi escussi, rispettivamente cognata e amica della moglie tradita, hanno confermato il tutto, avendo visionato personalmente foto e dichiarazioni d'amore dell'uomo su Facebook.

Tribunale Roma, sentenza n. 456/2016

Foto: 123rf.com
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