Per la Cassazione, le critiche del marito per le spese della moglie non configurano il reato di maltrattamenti in famiglia

Maltrattamenti in famiglia

Non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia se il marito critica le spese della moglie. E' quanto si ricava dalla sentenza n. 21115/2023 (sotto allegata) della sesta sezione penale della Cassazione.

I fatti originano dalla sentenza di appello che assolveva l'uomo dal reato di maltrattamenti poiché il fatto non sussiste. La moglie adiva allora il Palazzaccio lamentando vizio della motivazione in ordine alla valutazione delle fonti di prova ed in particolare della deposizione della persona offesa, che era stata ritenuta inattendibile sulla base di considerazioni illogiche, che hanno irragionevolmente svilito la rilevanza, ai fini della sussistenza del reato di maltrattamenti, degli insulti e delle umiliazioni subite dalla stessa. Obiettava, inoltre, quanto alla reciprocità delle offese, che le condotte maltrattanti erano di esclusivo appannaggio del marito per le umiliazioni inferte alla stessa, privandola del denaro necessario per le esigenze personali e familiari, ed impedendole di vedere i figli.

Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza dei motivi di ricorso.

La valutazione del compendio probatorio operata da parte del giudice di appello "appare inattaccabile - scrivono infatti - in difetto dell'allegazione di atti contrari rispetto ai dati di fatto ritenuti accertati, idonei a ravvisare un travisamento delle prove dichiarative e documentali poste a fondamento della decisione di riforma".

La Corte di merito ha ritenuto non sufficientemente provati i fatti per la ridotta attendibilità della persona offesa in ragione delle contraddizioni emerse dalla sua deposizione e per l'assenza di condotte violente, umilianti o vessatorie, in considerazione del quadro familiare connotato da contrasti reciproci, alimentati da una accesa conflittualità e "da disparità di vedute nella gestione sia delle spese necessarie per le esigenze familiari e sia per l'educazione dei due figli minori".

In particolare, i contrasti erano dovuti "alle modalità di gestione delle risorse familiari, poiché la moglie lamentava che il coniuge le faceva pesare ogni spesa, quindi si tratta di litigi insorti per questioni economiche e non originati dalla volontà dell'imputato di arrecare umiliazioni, ma conseguenza di semplici divergenze di vedute".

Ugualmente generiche, per i giudici di piazza Cavour, "sono le ulteriori censure mosse rispetto alla unilateralità delle offese, essendo i litigi dovuti a contrasti e difformità di vedute sulla gestione delle spese familiari e sull'educazione dei figli, senza una descrizione di fatti effettivamente indicativi di condotte vessatorie e umilianti, in ragione della loro irrilevanza sotto il profilo dei maltrattamenti, non avendo la stessa persona offesa mai lamentato di essere stata privata del denaro necessario per il mantenimento proprio e dei figli, ma sostanzialmente criticato un regime di spesa eccessivamente orientato al risparmio".
Il ricorso, in sostanza, "si limita nel suo complesso a riproporre in modo inammissibile la propria prospettazione dei fatti, senza confrontarsi con le valutazioni della Corte territoriale in punto di reciprocità delle offese, di assenza di comportamenti abituali di sopraffazione anche per la natura dei litigi privi di rilevanza penale se non per le reciproche ingiurie".


In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata non può essere censurata in sede di legittimità e il ricorso è, pertanto, inammissibile con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma equitativamente fissata in tremila euro in favore della Cassa delle ammende.

Scarica pdf Cass. n. 21115/2023

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