La Grande Sezione della Corte di Giustizia UE detta il limite di confine tra la libera opinione e l'affermazione discriminatoria in materia di condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro

di Silvia Cermaria - La CGUE nella EU:C:2020:289, C-507/18 (sotto allegata), deposita il 23 aprile 2020 relativa ad una pregiudiziale sollevata dalla nostra Corte di Cassazione si esprime sulla nozione di "condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro" contenuta all'art. 3 §.1 lett. a) Direttiva 2000/78/CE (parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), in riferimento alle opinioni potenzialmente discriminatorie espresse pubblicamente da una persona titolare di un'impresa astrattamente idonea a porre in essere politiche di assunzione.

Dichiarare di non voler assumere omosessuali è discriminatorio

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Un avvocato, socio di uno studio professionale, invitato durante una trasmissione radiofonica a rendere dichiarazioni in merito alla possibilità di assunzione di persone omosessuali, dichiara «di non voler assumere e di non volersi avvalere della collaborazione, nel proprio studio legale, di persone omosessuali».

Un'associazione di avvocati che difende i diritti della comunità LGBTI (sigla di lesbian, gay, bisexual, transgender e intersex), cita in giudizio l'avvocato ritenendo che avesse pronunciato delle frasi costituenti un comportamento discriminatorio fondato sull'orientamento sessuale dei lavoratori, in violazione dell'articolo 2, paragrafo 1, lettera a), del decreto legislativo n. 216 del 2003 il quale afferma il principio della parità di trattamento nell'accesso al lavoro e all'occupazione.

In veste di giudice del lavoro, il Tribunale di Bergamo chiamato a decidere la controversia accoglie con ordinanza le rimostranze dell'associazione di categoria e condanna il convenuto al pagamento in suo favore di un indennizzo pari a 10.000 euro per le dichiarazioni discriminatorie rese ritenute di ostacolo all'accesso al lavoro della categoria di persone rappresentate.

L'avvocato soccombente presenta ricorso dinanzi alla Corte d'Appello di Brescia la quale rigetta le doglianze sollevate e conferma l'ordinanza del Tribunale.

L'avvocato procede, dunque, a presentare ricorso per Cassazione nel quale fa valere, in particolare, la carenza di legittimazione ad agire dell'associazione conseguente all'erronea applicazione dell'articolo 5 del decreto legislativo

n. 216 del 2003, nonché la non corretta interpretazione, ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 1, lettera a) e dell'articolo 3 del citato decreto, delle proprie dichiarazioni che, sottolinea, sono state rese non in veste di datore di lavoro, bensì come semplice cittadino e, dunque, sono avulse da qualsiasi ambito professionale effettivo.

Le questioni oggetto del rinvio alla CGUE: legittimazione ad agire e libertà di opinione

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La Suprema Corte investita delle questioni giuridiche sollevate dal ricorrente evidenzia talune incertezze sulla corretta interpretazione della normativa europea nel nostro ordinamento (direttiva 2000/78 e il decreto legislativo di recepimento n. 216 del 2003), con risvolti pratici sulla controversia in esame.

Da un lato, infatti, la Corte prospetta fondati dubbi circa i criteri in virtù dei quali attribuire in capo ad un'associazione di categoria la legittimazione attiva processuale ove ricorra la necessità di tutelare i diritti e interessi delle persone che si rispecchino in siffatta azione.

Dall'altro lato, rileva l'assenza di indicazioni testuali univoche nell'ordinamento europeo così come in quello nazionale circa il corretto esercizio da parte dei giudici dell'opera di bilanciamento che deve riguardare il rapporto tra la disciplina europea sopracitata inerente alle condizioni di accesso al lavoro e all'occupazione e il diritto fondamentale all'esercizio della libertà di opinione.

Invero, in merito alla prima questione prospettata, occorre rilevare che la normativa italiana prevede la legittimazione di un ente a rappresentare in giudizio gli interessi omogenei dei propri iscritti quale precipitato della realizzazione di una violazione estesa all'intera categoria e non lesiva di un'unica persona ad essa appartenente e purché la stessa consista in una discriminazione diretta o indiretta in ambito occupazionale o lavorativo per ragioni inerenti anche l'orientamento sessuale (v. art. 5, paragrafo 2, del decreto legislativo n. 216 del 2003 attuativo della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro).

Ciò posto, la Corte di Cassazione si interroga sui limiti interpretativi che la disciplina anzi descritta pone agli operatori del diritto, in particolare, dovendosi valutare se ad un'associazione di avvocati che come quella in esame ha come scopo principale di offrire assistenza giuridica a persone LGBTI possa, nell'ambito di un'intrapresa attività processuale, possa riconoscersi la legittimazione ad agire, anche ai fini del risarcimento, contro le discriminazioni connesse all'occupazione, ossia ai sensi della direttiva 2000/78, sulla base di un proprio diretto interesse.

Ma il cuore della domanda pregiudiziale proposta dalla nostra Suprema Corte riguarda il secondo quesito di diritto il quale mira ad avere dalla Corte di Giustizia UE la corretta definizione dell'ambito applicativo della normativa europea e nazionale, ossia della direttiva 2000/78 e del decreto legislativo 216 del 2003, in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Ed infatti, la Corte di Cassazione si domanda se una disciplina afferente a situazioni quali l'instaurazione, l'esecuzione o la conclusione di un rapporto di lavoro che, evidentemente, ha una specifica rilevanza soprattutto sulla regolamentazione del fenomeno dell'iniziativa economica, possa esprimersi in ambiti ulteriori, implicitamente, estendendo la naturale portata dei suoi precetti normativi.

È questo il caso che può condurre alla possibile limitazione del diritto di esprimere liberamente un'opinione ove questa impatti sul processo di assunzione in ambito di lavoro, secondo criteri di pari opportunità.

È evidente che nel sollevare siffatta questione la Corte di Cassazione abbia tenuto in considerazione la necessità di bilanciare il diritto a non subire discriminazioni sul posto di lavoro, nel caso di specie, da parte delle persone LGBTI, e la libertà di espressione di ciascun individuo, posta peraltro la già citata incertezza sulla estensione della capacità limitativa della normativa in parola rispetto ad alti diritti che con essa possano avvicendarsi. In ogni caso, conclude la Cassazione nel rinviare la questione ai giudici europei, tenuto conto del fondamentale rilievo che la libertà di espressione ricopre nel nostro ordinamento, qualora si ritenga che quest'ultima possa essere compressa quale esito del bilanciamento suddetto, avendo ritenuto prevalente la necessità di tutela del principio di pari accesso al lavoro e all'occupazione, dovrà quantomeno verificarsi che le dichiarazioni siano rese nell'ambito o in concomitanza di una trattativa individuale o di un'offerta pubblica di lavoro per tal ragione soggette ad una alterazione nel loro corretto funzionamento.

La parola alla Corte di giustizia europea

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La Corte di Giustizia dell'Unione Europea chiamata a pronunciarsi sul rinvio pregiudiziale effettuato dalla nostra Suprema Corte in merito all'interpretazione che i giudici devono dare alle norme richiamate nella domanda, inizia l'esame delle questioni postponendo quella relativa alla legittimazione ad agire dell'associazione ricorrente a quella afferente alla corretta interpretazione della nozione «condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro (…), compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione» (art. 3 direttiva 2000/78), nel rapporto con principi fondamentali, quali la libertà di opinione.

La libertà di opinione non è illimitata

Ed in effetti è proprio sul significato della nozione «condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro (…), compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione» (art. 2 direttiva 2000/78), e sulla portata applicativa della tutela ad esso connessa (art. 3 direttiva 2000/78), che ruota la soluzione della controversia in atto e conseguentemente la qualificazione delle dichiarazioni rese dall'avvocato durante la trasmissione radiofonica come discriminatorie, tenuto conto anche dell'ambito normativo entro cui le stesse sono contestate (art. 3 cit.).

Procedendo per gradi, la Corte evidenzia, da un lato, che la locuzione «condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro (…), compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione» si rivolga a tutte le persone, sia nel settore pubblico che nel settore privato, ivi compresi gli organismi pubblici, sia dipendenti che autonomi, indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale; dall'altro lato, che manca nella normativa in parola qualsivoglia cenno al significato che gli interpreti del diritto devono riconoscere alla nozione citata.

D'altro canto, il significato in parola non può essere rinvenuto nemmeno negli ordinamenti dei singoli Stati membri in quanto nella direttiva non si ammette alcun rinvio alle legislazioni statali.

Ciò significa, seguendo il ragionamento della Corte di Giustizia, che il legislatore europeo ha inteso che la locuzione in parola abbia un significato uniforme e omogeneo in tutti gli Stati membri, tanto più che la normativa in cui la stessa è inserita risponde ad esigenze di tutela di primaria importanza, quali quelle connesse alla garanzia di pari opportunità in ambito lavorativo.

E così, in assenza di un dato testuale contenuto nella norma che possa venire in soccorso, la Corte di Giustizia evidenzia la necessità di rinvenire la nozione di «condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro» facendo ricorso ad altri criteri interpretativi quali quello sistematico e quello teleologico.

Dal punto di vista sistematico è interessante l'ampiezza dell'esame condotto dalla Corte di Giustizia il quale ha collocato la direttiva 2000/78 sul terreno dei principi cardine delle norme di rango primario dell'Unione. Ed infatti, la Corte afferma che la disciplina in materia di condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro sia espressione dell'articolo 13 CE, divenuto, successivamente, l'articolo 19, paragrafo 1, TFUE, il quale conferisce all'Unione una competenza ad adottare le misure necessarie per combattere qualsiasi discriminazione fondata, segnatamente, sull'orientamento sessuale.

Dal punto di vista della ratio normativa, ossia dell'obiettivo che il legislatore europeo si è prefissato di realizzare attraverso la stessa, nella sentenza della Corte di Giustizia si evidenzia il tema della lotta contro le discriminazioni - ossia della realizzazione della parità di trattamento - fondate sull'orientamento sessuale per quanto concerne «l'occupazione e le condizioni di lavoro», commisurando alle stesse idonei strumenti di tutela.

Il nesso tra la direttiva e i principi fondamentali affermati nei Trattati si rivela anche nei considerando di cui la stessa si arricchisce nei quali si afferma la realizzazione della piena partecipazione alla vita economica, culturale e sociale, nonché della realizzazione personale, con il più ampio livello di occupazione e protezione sociale, attraverso la garanzia di realizzazione delle pari opportunità, anche dal punto di vista dell'orientamento sessuale. D'altra parte, è ben evidente il richiamo al principio generale di non discriminazione sancito dall'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Tenuto conto dei rinvii espliciti ed impliciti che la direttiva in esame compie ai valori fondamentali ricordati, la Corte di Giustizia esclude che la nozione di «condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro», ai sensi dell'articolo 3, paragrafo 1, lettera a), possa essere oggetto di un'interpretazione restrittiva.

Ciò stante, le dichiarazioni pubbliche in cui si faccia riferimento all'accesso anche solo potenziale al lavoro e all'occupazione effettuato su base selettiva ispirata a politiche omofobe realizza di per sé una discriminazione.

Non osta a tale conclusione la circostanza che il dichiarante non abbia la capacità giuridica di definire direttamente le procedure di assunzione, rilevando in tali casi anche la mera influenza esercitabile su queste ultime, ove per esempio il datore di lavoro o la persona titolata ad effettuare le assunzioni non prenda le distanze dalle affermazioni omofobe. Allo stesso modo, non è rilevante ai fini dell'affermazione del carattere discriminatorio di talune dichiarazioni che non siano in corso delle trattative private o offerte pubbliche volte ad effettuare delle assunzioni. Ciò in quanto è rilevante la capacità potenziale della persona dichiarante di applicare politiche di assunzione omofobe, ovvero di influire sulla scelta degli individui di partecipare alla selezione o meno, essendo a conoscenza della politica applicata.

In entrambi i casi, a ben vedere, ciò che la Corte pone in risalto è la connessione non meramente ipotetica che deve sussistere tra le dichiarazioni omofobe e le condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro.

Una connessione la cui verifica, avendo un valore meramente fattuale, è rimessa dalla Corte di Giustizia al giudice nazionale adito al quale però offre una serie di criteri in virtù dei quali svolgere la valutazione.

Assumono rilievo, di conseguenza:

- lo status dell'autore delle dichiarazioni quale potenziale datore di lavoro o persona in grado di esercitare un'influenza significativa su coloro che mettono in atto le procedure in ambito occupazionale;

- la natura e il contenuto delle dichiarazioni che devono riferirsi alle condizioni di accesso all'occupazione e al lavoro in senso e con intenzione discriminatorie ai sensi della direttiva 2000/78 e della lettura fornita della stessa;

- il contesto in cui le dichiarazioni vengono rese, con particolare attenzione al carattere pubblico o privato dello stesso.

Definito il significato e l'ambito applicativo della direttiva 2000/78, la Corte riprende le mosse dal tema costituente il cuore della questione giuridica ad essa sottoposta dal giudice del rinvio.

E così la trattazione giunge a rispondere al quesito circa il bilanciamento che deve esistere tra il diritto alla non discriminazione delle persone, nel senso di cui alla direttiva 2000/78, e il diritto d'opinione collegato alla libertà d'espressione.

Ebbene, la conclusione cui la Corte di Giustizia giunge vede prevalere il diritto affermato nella direttiva, sulla libertà di opinione che, seppur espressione di un principio essenziale, non presenta i caratteri dell'assolutezza e, dunque, a certe condizioni può subire delle limitazioni nella sua estensione.

Limitazioni, quelle in parola, che devono essere previste all'interno di fondamentali garanzie e, prima di tutto, per legge. È il legislatore che si fa garante della libertà di opinione assicurandone, in ogni caso, la sopravvivenza del nucleo minimo essenziale che la caratterizza e disponendone limitazioni nei limiti del principio di proporzionalità tra queste e l'antagonista obiettivo di tutela.

Tornando al caso di specie, la limitazione imposta all'esercizio della libertà di espressione è imposta per legge, ossia con l'atto di recepimento della direttiva europea (d.lgs. 216/2003), secondo principi di proporzionalità rispetto agli obiettivi normativi, garantendo la sopravvivenza del contenuto minimo insopprimibile del diritto.

La Corte di Giustizia conclude affermando, in via astratta, la possibilità che le affermazioni espresse dall'avvocato nella trasmissione radiofonica possano costituire una discriminazione, rimettendo al giudice nazionale la verifica che le stesse abbiano potuto di fatto alterare le condizioni di accesso al lavoro, in senso discriminatorio per la categoria di individui rappresentata dall'associazione ricorrente.

Associazioni di categoria: legittimazione attiva processuale e diritto al risarcimento

Ed è proprio sulla questione relativa alla legittimazione attiva processuale di quest'ultima che si conclude la trattazione della Corte di Giustizia UE.

È oggetto dell'esame della Corte di Giustizia la sussistenza dei presupposti normativi per l'affermazione della legittimazione ad agire in giudizio dell'associazione di avvocati in rappresentanza della categoria LGBTI ed, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno. Ciò ove, evidentemente, si verifichino condotte discriminatorie, ai sensi della direttiva 2000/78, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.

Il combinato disposto degli artt. 8 e 9 della direttiva citata legittima ad agire in giudizio associazioni di categoria purché le persone lese per cui si procede siano di volta in volta identificabili. A ciò si aggiunge, su previsione delle medesime norme citate, la possibilità che ciascuno Stato membro possa ampliare i confini di tutela anzidetti. Ne deriva che seppur, da un lato, la direttiva non prevede la legittimazione ad agire in rappresentanza di persone che si assumono lese, ma che non siano specificamente individuate; dall'altro lato, la stessa ammette anche soluzioni nazionali diverse purché più favorevoli ed espressione del principio della parità di trattamento che ne è sottinteso.

Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte dichiara che la direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un'associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia automaticamente legittimata, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall'eventuale scopo di lucro dell'associazione stessa, ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa.

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Avv. Silvia Cermaria

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