La Corte riconosce a un'associazione di atei il diritto di manifestare il loro credo religioso negativo al pari dei religiosi

di Annamaria Villafrate - Con l'ordinanza n. 7893/2020 (sotto allegata) la Cassazione sancisce che gli atei e gli agnostici, al pari di chi professa qualsiasi altro credo o religione, hanno diritto di farne propaganda. Tale diritto trova fondamento in diverse interne e internazionali, che affermano importanti principi come quello di libertà religiosa negativa e di non discriminazione, senza dimenticare quello primario di laicità dello Stato Italiano. Negare a chi non crede di manifestare il proprio pensiero e di fare proseliti attraverso manifesti o altre forme di propaganda, darebbe vita a una forma di discriminazione intollerabile, naturalmente a condizione che essa si realizzi nel rispetto delle altri religioni e non integri reato di vilipendio.

No all'affissione di un manifesto di un'associazione di atei

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Un'associazione romana presenta al Comune un'istanza di affissione di dieci manifesti "recanti la parola "Dio" con la "D" a stampatello barrata da una crocetta e le successive lettere "io" in corsivo, e sotto la dicitura, a caratteri più piccoli "10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati c'è l' (nome associazione) al loro fianco." In basso a destra il manifesto riporta il logo e il nome dell'associazione in un piccolo riquadro. Il Comune respinge l'istanza perché il contenuto risulta lesivo di qualsiasi confessione religione.

A questo punto l'associazione si rivolge al Tribunale per chiedere l'accertamento del carattere discriminatorio del rifiuto del Comune, la condanna a cessare tale condotta discriminatoria, a risarcire l'associazione e a pubblicare la decisione su un quotidiano a spese dell'ente. Il Tribunale rigetta il ricorso, avallando la decisione del Comune, che non può considerarsi discriminatoria, perché fondata solo sulle modalità grafiche ed espressive dei manifesti. L'associazione ricorre quindi in appello, ma la Corte conferma totalmente la decisione del Tribunale, condividendone il percorso argomentativo.

Violazione libertà religiosa

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L'associazione ricorrere in sede di legittimità, sollevando con il primo, il secondo e il terzo motivo, strettamente connessi tra loro, violazione degli artt. 19 e 21 della Costituzione, art. 9 della CEDU e art. 43 del dlgs n. 286/1998.

In detti motivi l'associazione evidenzia come la Corte d'Appello non ha considerato i manifesti come libera espressione della propria libertà religiosa solo perché non contenevano un messaggio in favore di ateismo e agnosticismo, ma miravano a negare la fede religiosa in generale.

La ricorrente lamenta anche l'esclusione da parte del giudice dell'impugnazione della discriminazione contemplata dall'art. 43 del dlgs n. 286/1998 solo perché nei manifesti non viene effettuata una comparazione tra due situazioni, quando è evidente che secondo le motivazioni di entrambi i giudici di merito l'affissione sembra riservata solo a chi esprime un pensiero religioso positivo, considerazione che contiene al suo interno una forma di disparità di trattamento.

Erra poi il giudice nel ritenere che l'affissione del manifesto avrebbe violato l'altrui sensibilità religiosa a causa delle espressioni utilizzate, visto che nel caso di specie la forma negativa utilizzata non integra il reato di vilipendio della religione professata da altri.

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Gli atei come i religiosi hanno il diritto di fare proseliti senza essere discriminati

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La Cassazione, con l'ordinanza n. 7893/2020 accogli i primi tre motivi del ricorso, dichiara assorbito il quarto e rinvia alla Corte d'Appello competente.

La Cassazione chiarisce che l'art. 19 della Costituzione riconosce e tutela una forma di libertà di manifestazione del pensiero prevista dal successivo art. 21, solo se si la libertà di religione è positiva. La libertà negativa di poter mutare credo o di professare una fede laica o agnostica sembra infatti esclusa dalla formulazione dell'art. 19.

Tale interpretazione però nel tempo è stato smentita. La Consulta infatti a un certo punto ha iniziato a considerare la tutela della libertà di coscienza anche in favore dei non credenti, rientrante sia nell'art. 19 che nell'art 21 della Costituzione, da intendersi anche in senso negativo. Del resto dal combinato disposto degli artt. 2, 3, 19 e 21 della Costituzione la libertà di coscienza rappresenta un aspetto della dignità della persona umana che deve essere riconosciuta sia ai credenti che ai non credenti, atei o agnostici.

Passando poi all'analisi del diritto comunitario, la Cassazione ricorda che l'art. 10 della Carta dei diritti fondamentali in materia riconosce la libertà di pensiero e di religione, che comprende anche quella di cambiare religione e convinzione e di manifestarla individualmente e collettivamente. Previsione analoga è contenuta nell'art. 9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che riconosce le libertà di religione, di pensiero e di coscienza che comprendono il diritto di cambiare credo e di non averne alcuno e quindi di professarsi anche ateo o agnostico.

Interpretazioni che hanno trovato conferma in numerose sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'uomo da cui gli Ermellini evincono che "il diritto degli atei e agnostici di professare un credo che si traduce nel rifiuto di una qualsiasi confessione religiosa (cd. pensiero religioso negativo), espressione della libertà di coscienza sancita dall'art. 19, è tutelato - a livello nazionale e internazionale - al pari e nella stessa misura del credo religioso positivo, che si sostanzia, invece, nell'adesione ad una determinata confessione religiosa. Sotto tale profilo, la libertà di coscienza interseca e si coniuga con il principio di laicità dello Stato" da intendersi come non ingerenza e neutralità dei poteri pubblici rispetto alla libertà religiosa, che è una scelta rimessa ai singoli.

Da tale diritto discende quello di farne propaganda come previsto dall'art. 19 della Costituzione, anche in forma critica, a condizione che non sfoci in aggressione o vilipendio della fede professata da altri.

Dopo aver analizzato il reato di vilipendio però la Corte giunge alla conclusione che "totalmente diversa e molto distante dall'esempio suindicato si palesa, per converso, la fattispecie in esame, nella quale il manifesto di propaganda si concreta nella mera cancellazione della lettera D dalla parola Dio, seguita dalla scritta, peraltro in caratteri molto più piccoli "10 milioni di italiani vivono bene senza D. E quando sono discriminati c'è (…) al loro fianco". Non pare corretta quindi l'interpretazione della Corte d'Appello che ha letto il messaggio come la volontà di annullare il concetto di credo religioso, qualunque esso sia.

Occorre inoltre ricordare che il riconoscimento del diritto paritario degli atei e degli agnostici di professare il loro pensiero religioso negativo prevede che anche nei loro confronti non si possa mettere in atto forma alcuna di discriminazione, come imposto dalla nostra Costituzione e dalla Direttiva 2000/78/UE, che sancisce il principio della parità di trattamento.

Da qui l'erroneità della sentenza impugnata nel momento in cui esclude la discriminazione ai danni dell'associazione "per il fatto che non vi sarebbe stata, nello stesso contesto temporale, la concessione degli spazi per le affissioni e i manifesti a favore dei fedeli di determinate religioni."

Si ricorda infine come gli articoli 43 e 44 del dlgs n. 286/1998 siano stati interpretati dalla Corte come diritto a non subire discriminazioni poste in essere sia da privati che, come nel caso di specie, dalla Pubblica Amministrazione.

Alla Corte d'Appello, in diversa composizione, il compito di procedere a un nuovo esame della controversia applicando, alla luce dell'analisi compiuta dalla Cassazione, i principi supremi di laicità dello Stato, di parità di trattamento e di non discriminazione, riconoscendo il diritto di liberà di coscienza ad atei e agnostici.

Scarica pdf Ordinanza Cassazione n. 7893/2020

Foto: 123rf.com
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