Per la Cassazione, pur riconducibile ai diritti sociali ex art. 3 Cost., il diritto all'abitazione va comparato con l'interesse alla collettività all'affettiva applicazione della normativa edilizia

di Lucia Izzo - Il diritto all'abitazione è riconducibile alla categoria dei diritti sociali i quali trovano legittimazione nel secondo comma dell'art. 3 della Costituzione. Sebbene manchi un espresso e testuale riferimento al diritto all'abitare, la riconducibilità agli artt. 2 e 3 Cost. comporta il dovere dello Stato di intervenire positivamente per dare concreta attuazione al precetto costituzionale.

Diritto all'abitazione e bilanciamento interesse collettività

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Ciononostante, il diritto all'abitazione non può essere qualificato come assoluto, dovendo lo stesso essere comparato con l'interesse della collettività all'effettiva applicazione della normativa in materia edilizia.


Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, terza sezione penale, nella sentenza n. 844/2020 (qui sotto allegata) pronunciandosi sulla richiesta di sospensione e revoca dell'ordine di demolizione avanzata dal proprietario di un immobile abusivo.


Innanzi ai giudici di legittimità, il proprietario deduce violazione di legge con riferimento all'art. 8 CEDU e all'art. 32 Cost. in quanto l'ordine di demolizione avrebbe, a suo dire, compromesso il diritto alla tutela dell'abitazione di 7 persone (due nuclei familiari) che non disponevano di un diverso alloggio né delle necessarie risorse economiche per garantirsi un'altra abitazione.

Il diritto all'abitazione nella Costituzione

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La Corte parte dalla valutazione del c.d. diritto all'abitazione che viene ritenuto riconducibile alla categoria dei diritti sociali che trovano legittimazione nel secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.


Il principio di uguaglianza, chiarisce la Corte, non viene garantito solo in senso formale (art. 3, co. 1, Cost), ma anche in senso sostanziale sicché, mediante l'eliminazione degli ostacoli sociali ed economici, viene garantito al singolo il godimento dei diritti fondamentali collegati allo sviluppo della propria personalità.


La riconducibilità del diritto all'abitazione agli artt. 2 e 3 Cost., sebbene manchi un riferimento espresso e testuale "diritto all'abitare", spiega la Cassazione, comporta il dovere dello Stato di intervenire positivamente per dare concreta attuazione al precetto costituzionale.


Sul tema assume rilievo anche l'art. 1, Prot. 1, CEDU posto a tutela del diritto di proprietà. Tale articolo, secondo la giurisprudenza della medesima Corte, sarebbe costituito da tre norme:

1) la prima, di carattere più generale (co.1), enuncia il principio del rispetto del diritto di proprietà;

2) la seconda regola (sempre co. 1) le ipotesi di privazione della proprietà, le quali vengono subordinate alla sussistenza di determinate condizioni;

3) l'ultima, (co. 2) concerne invece la regolamentazione dell'uso dei beni riconosciuta in capo allo Stato nell'ottica del perseguimento dell'interesse generale.

Ordine di demolizione: il diritto all'abitazione non ha valore assoluto

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Gli Ermellini svolgono alcune importanti considerazioni sul tema oggetto della doglianza difensiva, ovvero quello del rapporto tra diritto all'abitazione e ordine di demolizione anche alla luce delle conclusioni raggiunte sia dalla giurisprudenza nazionale sia da quella sovranazionale

La Corte ribadisce che il diritto all'abitazione non può essere qualificato come assoluto, dovendo lo stesso essere comparato con l'interesse della collettività all'effettiva applicazione della normativa in materia edilizia.

Pertanto, si ritiene che l'ordine di demolizione non costituisce una sanzione penale, bensì una misura funzionalmente diretta al ripristino dello status quo ante, la cui non esecuzione è limitata a ipotesi specificamente individuate dal legislatore (come la c.d. fiscalizzazione ex art. 34 TU Edilizia).


Nel caso in esame, la demolizione ordinata non viene considerata sproporzionata rispetto all'interesse del singolo, tenuto conto, come rilevato dal giudice dell'esecuzione, che essa concerne unicamente una porzione dell'opera, ossia un suo ampliamento, e non essa nella sua interezza.

La fiscalizzazione dell'abuso edilizio

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La fiscalizzazione dell'abuso edilizio consente di comminare una sanzione pecuniaria, in luogo dell'eliminazione delle parti realizzate abusivamente, qualora la rimozione della porzione abusiva del manufatto non possa avvenire senza pregiudizio per la restante parte.


L'operatività di tale strumento, chiarisce la Cassazione, appare perà eccezionale e limitata entro precisi confini fissati dalla legge: il legislatore fa riferimento esclusivamente alle ipotesi in cui sussista solo una parziale difformità la cui percentuale ha quale parametro di riferimento "le misure progettuali" fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato (cfr. Cass., n. 19538/2010).


Tale procedura non è configurabile come una sanatoria dell'abuso edilizio, estintiva del corrispondente reato, poiché non integra una regolarizzazione dell'illecito, né ovviamente autorizza il completamento delle opere realizzate, venendo le parti abusive tollerate, nello stato in cui si trovano, solo in funzione di conservazione di quelle realizzate legittimamente.


Si precisa, inoltre, la diversità delle nozioni di totale e parziale difformità di un immobile abusivo, nozioni tra loro antitetiche, dalle quali discende anche un diverso approccio valutativo e comparativo. In entrambe le ipotesi, comunque, è richiesta l'avvenuta adozione di un titolo abilitativo rilasciato dall'autorità amministrativa, con il quale sia stato dato assenso alla realizzazione di un programmato intervento edilizio.

Abuso edilizio per mancanza di titolo abilitativo

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Diversa, è invece l'ipotesi di un abuso intervenuto in mancanza del suddetto titolo rispetto al quale confrontare gli esiti della successiva fase. Pertanto, ove un immobile sia stato già realizzato, anche se legittimamente, gli ulteriori, successivi interventi operati su di esso, in assenza di nuovo titolo abilitativo, anche qualora non stravolgano l'organismo edilizio, non possono essere qualificati come opere realizzate in "parziale difformità", stante l'assenza del necessario parametro di riferimento (rectius, il titolo abilitativo che abbia autorizzato l'intervento e cui comunque deve riconnettersi la parte parzialmente difforme).


Nel caso in esame, quanto alla negata applicazione dell'art. 34 TUE, si evince che il consulente tecnico del ricorrente non ha fornito dati scientificamente attendibili idonei a dimostrare l'effettiva incidenza della demolizione parziale sull'intero immobile.


È comunque opportuno precisare che il citato art. 34 non è applicabile, posto che, nel caso in esame è stato accertato che l'opera abusiva realizzata non risultava (solo) difforme parzialmente dal titolo abilitativo previamente rilasciato, ma che la medesima difettava del necessario permesso di costruire, configurandosi pertanto una ipotesi non riconducibile, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, all'art. 34 TUE. Pertanto, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Scarica pdf Cass., III pen., sent. n. 844/2020

Foto: 123rf.com
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