La Suprema Corte si mostra molto "rigorosa" condannando il padre disoccupato che ha mancato di mantenere la figlia, non concendendo nemmeno la sospensione condizionale della pena

di Carlo Casini - Va condannato il padre disoccupato che non versa il mantenimento ai figli. Sicuramente la Suprema Corte ha voluto prendere una forte presa di posizione sulla vicenda relativa alla sentenza n. 34952/2018 (sotto allegata). L'imputato, un uomo sui 35, ha fatto mancare i mezzi di sussistenza alla propria figlia, in maniera continua e non sporadica, sottraendosi ai suoi obblighi di genitore.

Le difese del padre imputato erano tutte incentrate sul non aver mai goduto di alcun reddito, situazione di indigenza in cui versava fin dall'inizio della convivenza e del concepimento della figlia, allegando anche l'accordo preso con la madre della figlia con il quale si stabiliva una cifra forfettaria inferiore ai cento euro mensili.

Nulli gli accordi sui mezzi di sussistenza ai figli non omologati dal giudice

Accordo sulla cui invalidità si è pronunciata la Corte, poichè non ha subito alcun controllo giurisdizionale di omologa o validazione, requisito necessario perchè la materia è sottratta alla libera autonomia delle parti.

L'elemento che probabilmente deve aver di più influenzato il ragionaento degli Ermellini nella loro pronuncia è sicuramente quello del lavoro saltuario svolto dall'uomo, dei cui proventi non ha mai destinato nulla alla figlia al fine di mantenerla, adducendo come motivazione difensiva che quanto ricavava dal lavoro occasionale non risultava sufficiente nemmeno al suo sostentamento.

Inoltre, dalla sentenza si evince che la difesa dell'imputato non è riuscita a vincere la presunzione per cui aveva l'onore di dimostrare la totale indigenza del padre.

Rileva anche, ai fini dell'integrazione della responsabilità del padre, la immorale condotta di disinteresse morale e materiale nei confronti della figlia minore.

D'altronde, di fronte all'impossibilità o alla grave difficoltà di far fronte al versamento dell'assegno di mantenimento, la legge conferisce al coniuge obbligato la possibilità di chiedere la modifica e/o la revisione del "quantum".

Infatti, secondo il co.7 dell'art. 156 c.c., qualora sopraggiungano giustificati motivi, il giudice, su istanza di parte, può infatti disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti adottati in ordine all'assegno di mantenimento.

Era auspicabile che la difesa dell'imputato si soffermasse di più sulle cause che impossibilitano l'uomo a trovare una stabile occupazione, a riguardo la Suprema Corte scrive: "Incombe sull' imputato l'onere di allegare gli elementi dai quali possa desumersi l'impossibilità di adempiere alla relativa obbligazione".

La Cassazione infine ha condiviso le determinazioni del giudice a quo, condividendo la persistenza della condotta criminosa e della sua particolare gravità, non ritenendo, come il giudice a quo, concedibile nel caso di specie il beneficio della sospensione condizionale della pena.

La rigorosità della sentenza in linea con l'art. 570 c.p.

La sentenza è certamente condivisibile nei suoi approdi alla luce del dato normativo, non essendo state presentate le relative documentazioni da parte dell'imputato per assolvere l'onere probatorio che ricadeva in capo alla sua difesa, circa la totale situazione di indigenza e di impossibilità ad avere un impiego stabile. Inoltre, non avendo mai adempiuto il suo obbligo non si può nemmeno per ovvi motivi invocare la sporadicità dell' inadempimento.

La Corte nella parte argomentativa della sentenza conferma come la minore età del figlio/a destinatari dei mezzi di sussistenza, rappresenta in re ipsa una condizione soggettiva dello stato di bisogno, che obbliga i genitori a contribuire al loro mantenimento.

Per quanto sopra esposto, è quindi giustificabile la rigorosità della pronuncia degli Ermellini alla luce del comportamento difensivo tenuto dalla parte nel processo, la quale avrebbe potuto sicuramente "attenuare" questa rigorosità con valide allegazioni difensive probanti l'incapacità di attendere ai bisogni della figlia a causa della totale assenza di possibilità lavorativa.

Non essendo riuscita la difesa del condannato a produrre le dovute argomentazioni in merito, la Corte ha giustamente desunto che non vi era solo una impossibilità oggettiva alla prestazione, ma una quanto meno concausa, anche parziale, di colpa dell'obbligato, valida a integrare la responsabilità penale prevista dall'art. 570 c.p.

Cassazione sentenza n. 34952/2018
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