di Lucia Izzo - È illegittima la pretesa del datore di lavoro, in sede di assunzione, di esibire il certificato dei carichi pendenti se il CCNL prevede, ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore, unicamente la produzione del certificato penale.
Lo ha deciso la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 19012/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sulla vicenda di una lavoratrice che aveva chiesto la condanna di Poste Italiane ad immetterla in servizio.
La lavoratrice, già inserita nella graduatoria unica nazionale dei lavoratori precedentemente assunti con contratto a tempo determinato da Poste Italiane, non era stata assunta in servizio per essere risultato un carico pendente dalla certificazione della competente Procura.
I giudici di merito accoglievano il ricorso ritenendo illegittimo il rifiuto di procedere all'assunzione. In particolare, i giudici d'appello ritenevano che la disposizione di cui all'art. 19 del CCNL prevedesse tra i documenti da presentare per l'assunzione solo "il certificato penale di data non anteriore a tre mesi" non anche quello dei carichi pendenti.
Ancora, l'estensione della richiesta della società (che aveva poi determinato il diniego di assunzione) non avrebbe potuto essere giustificata da alcun interesse dell'azienda a conoscere la storia personale della persona che si accingeva ad assumere stante, peraltro, la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27 della Costituzione.
Lavoro: no certificato carichi pendenti se non c'è nel Ccnl
In Cassazione, Poste Italiane ritiene che l'espressione "certificato penale" dovesse essere intesa in senso ampio, comprensiva anche del certificato dei carichi pendenti, poiché la ratio della norma è quella di garantire il datore di lavoro nella fase dell'assunzione e rileva che la certificazione negativa dei carichi pendenti è un documento dal quale la società, per l'importanza dell'attività che svolge, non può prescindere.
Nel respingere il ricorso, gli Ermellini ritengono che i rilievi della ricorrente non siano tali da scalfire l'interpretazione dell'art. 19 del c.c.n.l. come offerta dalla Corte territoriale. Ed infatti appare corretta la rilevanza attribuita innanzitutto al dato letterale secondo il quale tra i documenti da presentare ai fini dell'assunzione vi è il solo "certificato penale di data non anteriore a tre mesi".
La disposizione predetta è quindi assolutamente chiara nella sua formulazione e non è possibile attribuire all'espressione "certificato penale" (che evoca il certificato di cui agli artt. 23 e 25 del T.U. sul casellario giudiziale di cui al d.P.R. n. 313/2002) un significato semantico suscettibile di plurime interpretazioni.
In ogni caso si tratta di una disposizione che, condizionando (sospensivamente) l'assunzione alla presenza di determinati requisiti debitamente documentati, non può formare oggetto di interpretazione estensiva perché ciò si risolverebbe nell'introduzione di un limite ulteriore rispetto a quello che le parti contraenti hanno inteso prevedere.
Ed infatti, sottolinea la Cassazione, la richiesta del certificato penale integra un limite rispetto alla previsione di cui all'art. 8 dello Statuto dei Lavoratori (è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi [...] su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore) che si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all'esistenza di condanne penali passate in giudicato.
Tale limite, concludono i giudici, in assenza di espressa previsione contrattuale non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso, ciò specie in considerazione del principio costituzionale della presunzione d'innocenza.
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Cass., sezione lavoro, sent. n. 19012/2018• Foto: 123rf.com