La Consulta ha sancito l'illegittimità costituzionale dell'art. 656, comma 5, c.p.p. nella parte in cui prevede il limite di tre anni anziché quattro. Il testo della sentenza

di Lucia Izzo - L'art. 656, comma 5, del codice di procedura penale (Esecuzione delle pene detentive) è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che il pubblico ministero sospende l'esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.

Lo ha deciso la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 41/2018 (qui sotto allegata) che, in tal modo, ha scongiurato l'effetto "porte girevoli" che la norma impugnata avrebbe potuto provocare comportando l'accesso del condannato in carcere per alcuni mesi nonostante questi avesse titolo per scontare la pena in altra forma.


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La vicenda

Il giudice rimettente si era trovato a decidere su una domanda volta alla declaratoria di temporanea inefficacia di un ordine di esecuzione della pena detentiva di tre anni, undici mesi e diciassette giorni di reclusione, che il pubblico ministero aveva emesso in base all'art. 656, comma 1, c.p.p., senza sospenderlo, perché la pena da scontare eccedeva il limite di tre anni fissato dal quinto comma dello stesso articolo.

La norma preserva la libertà del condannato per consentirgli di presentare al Tribunale di sorveglianza una richiesta di affidamento in prova al servizio sociale e di rimanere libero fino a quando non sopraggiunga una decisione sulla richiesta.

In tal modo si evita l'ingresso in carcere di persone che possono godere di misure alternative alla detenzione come quelle previste dalla legge n. 354/1975 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e dal d.P.R. n. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Tuttavia, il condannato aveva chiesto al giudice a quo di dichiarare inefficace l'ordine di esecuzione, sostenendo che esso avrebbe dovuto essere sospeso nonostante la pena da espiare eccedesse il limite triennale.

Non potendo il giudice a quo interpretare la disposizione nel senso auspicato dal ricorrente (stante l'univoco tenore letterale della stessa) la questione della sua legittimità costituzionale è stata sottoposta alla Corte in particolare quanto alla parte in cui la sospensione dell'esecuzione continua a essere prevista quando la pena detentiva da espiare non è superiore a tre anni, anziché a quattro.

Ciò sulla base dell'ulteriore ipotesi di affidamento in prova (c.d. allargato) introdotto dal nuovo art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354/1975 che può essere concesso "al condannato che deve espiare una pena detentiva, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell'anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire" un giudizio positivo circa la rieducazione del condannato e la prevenzione dal pericolo che commetta altri reati.


Ciò posto, secondo il giudice rimettente, l'omesso adeguamento del limite quantitativo di pena previsto dalla norma censurata a quello ora indicato ai fini dell'affidamento in prova allargato determinerebbe un "disallineamento sistematico", frutto di un "mancato raccordo tra norme", reputato lesivo anzitutto dell'art. 3 Cost., dato che discrimina ingiustificatamente coloro che possono essere ammessi alla misura alternativa perché debbono espiare una pena detentiva non superiore a quattro anni, da coloro che, potendo godere dell'affidamento in prova relativo a una pena detentiva non superiore a tre anni, ottengono la sospensione automatica dell'ordine di esecuzione.


Inoltre la disposizione censurata, comportando l'ingresso in carcere di chi può godere dell'affidamento in prova allargato, sarebbe in contrasto anche con la finalità rieducativa della pena prevista dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione.

Pena detentiva: sì alla sospensione fino a quattro anni

Nonostante il diverso avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, per la Corte la questione è fondata: indubbiamente, si legge nel provvedimento, la genesi dell'istituto definito dall'art. 656, comma 5, c.p.p. e lo sviluppo che esso ha trovato nella legislazione confermano che immanente al sistema, e tratto di imprescindibile coerenza intrinseca di esso, è un tendenziale parallelismo tra i due termini posti a raffronto.


La Consulta elenca, a conferma di tale assunto, tutti gli interventi correttivi che tale parallelismo ha comportato negli anni, conseguenti al carattere complementare che l'art. 656, comma 5, c.p.p. riveste rispetto alla scelta legislativa di aprire la via alla misura alternativa


La natura servente dell'istituto oggetto del dubbio di legittimità costituzionale, spiegano i giudici, lo espone a profili di incoerenza normativa ogni qual volta venga spezzato il filo che lega la sospensione dell'ordine di esecuzione alla possibilità riconosciuta al condannato di sottoporsi ad un percorso risocializzante che non includa il trattamento carcerario.


Tuttavia, all'introduzione dell'affidamento in prova per pene da espiare fino a quattro anni di detenzione non ha corrisposto un'analoga modificazione del termine indicato dalla disposizione censurata non essendo ancora stata ancora esercitata la delega legislativa conferita con la legge n. 103/2017 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario) che ha previsto di fissare, in ogni caso, in quattro anni il limite di pena che impone la sospensione dell'ordine di esecuzione.

Nel caso in esame, la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l'affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell'ordine di esecuzione.


Nonostante, in linea di principio, non sia vietato al legislatore di dare vita a forme alternative alla detenzione riservate ai soli detenuti, nel caso dell'affidamento allargato la legge non si è valsa di tale spazio di discrezionalità perché ha esplicitamente optato per l'equiparazione tra detenuti e liberi ai fini dell'accesso alla misura alternativa; scelta, secondo la Consulta, del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa, ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero.


In conclusione, mancando di elevare il termine previsto per sospendere l'ordine di esecuzione della pena detentiva, così da renderlo corrispondente al termine di concessione dell'affidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l'art. 3 della Costituzione.


Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un trattamento normativo differenziato di situazioni da reputarsi uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva e alle garanzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della libertà personale del condannato.

Corte Costituzionale, pronuncia 41/2018

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