La Cassazione analizza la spettanza o meno del beneficio ex legge n. 476/1985 anche all'assunto a tempo determinato

di Lucia Izzo - L'aspettativa retribuita (per approfondimenti: Aspettativa retribuita: cos'è e come ottenerla) in caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca, a norma di legge va riservata al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, stante il riferimento alla prosecuzione del rapporto (per una durata minima di 2 anni) dopo il conseguimento del dottorato medesimo.


Tuttavia, tale aspettativa si potrà estendere anche ai dipendenti pubblici con contratto a termine, qualora la durata del rapporto di lavoro sia compatibile con i requisiti previsti dall'art. 2 della legge n. 476/1985.


Lo ha precisato la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 3096/2018 (qui sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso del Ministero dell'Istruzione.

La vicenda

Il Tribunale aveva riconosciuto il diritto di un insegnante assunto a tempo determinato, a fruire del congedo straordinario per dottorato di ricerca ex art. 2 della legge 476/1984 (come modificato dall'art. 52 della legge n. 448/2001) e aveva condannato l'amministrazione scolastica alla conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza.


Decisione confermata dalla Corte territoriale che, pur manifestando perplessità in ordine alla peculiarità del caso, aveva richiamato a fondamento della decisione il principio di non discriminazione fra assunti a tempo indeterminato e lavoratori a termine, evidenziando anche che non è quello dell'amministrazione l'interesse perseguito dalle norme sul congedo per ragioni di studio, il quale è invece è riconducibile ai diritti fondamentali della persona garantiti a livello costituzionale.


Diversa la conclusione a cui giunge la Cassazione pronunciandosi sulle doglianze del MIUR in relazione all'applicabilità agli assunti a tempo determinato delle norme della legge n. 476/1984.

Aspettativa retribuita per ammissione a dottorato di ricerca

Gli Ermellini sottolineano come l'art. 2 di tale legge, nel testo modificato dalla legge 448/2001, dispone che "in caso di ammissione a corsi di dottorato di ricerca senza borsa di studio, o di rinuncia a questa, l'interessato in aspettativa conserva il trattamento economico, previdenziale e di quiescenza in godimento da parte dell'amministrazione pubblica presso la quale è instaurato il rapporto di lavoro".


Ancora, "qualora, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, il rapporto di lavoro con l'amministrazione pubblica cessi per volontà del dipendente nei due anni successivi è dovuta la ripetizione degli importi corrisposti (...)".


Sul punto, la Suprema Corte ha già precisato (Cass. n. 10695/2017) che la legge del 2001 ha previsto il diritto al trattamento economico per i dipendenti pubblici ammessi al dottorato di ricerca senza borsa di studio al fine di incentivare l'arricchimento del bagaglio culturale dei dipendenti stessi, a prescindere da soglie di reddito.


Al tempo stesso, inoltre, il legislatore ha fissato un periodo minimo dì due anni di permanenza nel posto di lavoro successivamente al conseguimento del titolo, in modo da consentire all'amministrazione di fruire delle conoscenze acquisite dal dipendente grazie agli studi post-universitari.


In sostanza, la giurisprudenza spiega come la norma abbia contemperato il diritto allo studio del pubblico dipendente con l'interesse della P.A., stabilendo, da una parte, l'incondizionata erogazione di un emolumento economico (la borsa di studio o la retribuzione) e dall'altra una condizione di stabilità del rapporto di pubblico impiego, che giustifica la deroga, per il periodo di svolgimento del dottorato, al principio generale di sinallagmaticità.

Aspettativa retribuita per dottorato: spetta all'assunto a tempo determinato?

Nonostante la disposizione si riferisca al "pubblico dipendente", senza ulteriori precisazioni, la ratio della norma, come sopra individuata, porta a ritenere che il legislatore ne abbia voluto circoscrivere l'applicazione ai soli casi in cui l'ammesso al corso di dottorato sia legato all'amministrazione da un rapporto a tempo indeterminato.


Ciò, spiega la Cassazione, in quanto è proprio sulla stabilità che si fonda il contemperamento fra gli opposti interessi in gioco, tanto che è stata prevista come condizione risolutiva del beneficio la cessazione del rapporto stesso, ove intervenuta prima del compimento del biennio.


Il beneficio, dunque, appare riservato ai lavoratori a tempo indeterminato e quindi non è garantito dalla norma anche all'assunto a tempo determinato la conservazione del trattamento economico, previdenziale e di quiescenza.


Occorre dunque valutare se questi possa invocare utilmente il principio di non discriminazione, di diretta applicazione, sancito dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 1999/70/CE.


Per la Corte di Giustizia (cfr. causa C-16/15), il divieto di trattamenti discriminatori nelle condizioni di impiego non opera qualora "la disparità di trattamento constatata sia giustificata dalla sussistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di lavoro di cui trattasi, nel particolare contesto in cui s'inscrive e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se tale disparità risponda ad una reale necessità, sia idonea a conseguire l'obiettivo perseguito e risulti a tal fine necessaria".


Anche l'art. 6 del d.lgs. n. 368/2001, nel recepire il principio fissato dall'accordo quadro, ha stabilito la tendenziale estensione al lavoratore a termine di ogni trattamento riservato ai dipendenti a tempo indeterminato "sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine".


Secondo la Cassazione, gle elementi concreti che, secondo la CGUE, giustificano la disparità di trattamento sussistono senz'altro nella fattispecie esaminata, in quanto viene in rilievo una supplenza di durata annuale dell'insegnante assunto, dunque, a tempo determinato.


La norma, infatti, presupponendo una stabilità minima del rapporto, esclude la piena comparabilità rispetto all'istituto in discussione del lavoratore a tempo determinato, qualunque sia la durata del contratto a termine, con il dipendente a tempo indeterminato.


Tuttavia, un problema di compatibilità della normativa nazionale (applicabile ai soli assunti a tempo indeterminato) con il diritto dell'Unione si potrebbe, al più, porre se, in ipotesi, la durata del rapporto a tempo determinato fosse compatibile con la condizione imposta dalla norma, ossia se è prevista la prosecuzione almeno biennale del rapporto del lavoratore una volta terminato il periodo di aspettativa.


Poichè nel caso di specie tale problema di compatibilità non si pone (trattandosi di supplenza annuale), la sentenza impugnata va cassata e la domanda dell'insegnante, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, va definitivamnete rigettata.

Cassazione, sentenza n. 3096/2018

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