E per la Cassazione il datore di lavoro risponde dei danni alla vittima in solido con lo stalker

di Valeria Zeppilli - La persecuzione di un dipendente da parte di un superiore gerarchico può andare ben oltre il mobbing e, in alcuni casi, è idonea a trasformarsi in vero e proprio stalking.

Con la sentenza numero 35588/2017 (qui sotto allegata), la Corte di cassazione ha infatti sancito la definitiva condanna del responsabile di un servizio comunale per la persecuzione professionale posta in essere in danno di una lavoratrice sua subordinata, chiamando peraltro il datore di lavoro a risarcire in solido con lo stalker i danni da questo cagionati alla vittima.

Stalking: persecuzione professionale del capo contro la dipendente

In particolare, l'uomo aveva posto in essere delle pesanti violenze morali contro la lavoratrice, sostanziatesi in atteggiamenti oppressivi e a sfondo sessuale.

Inizialmente il capo di imputazione era quello di violenza privata ma, nel corso del dibattimento, lo stesso era stato modificato quello di atti persecutori. Infatti, lo stalking si ha ogni qualvolta determinate condotte, pur non violente, producono in chi le subisce un apprezzabile turbamento, cosa che nel caso di specie si era verificata: la donna aveva infatti accumulato un grande disagio e una profonda prostrazione psicologica.

Le condotte, peraltro, si sono protratte per diversi anni e l'abitualità del reato ha escluso la decorrenza del termine prescrizionale per il suo perseguimento. Non solo: il reo aveva tentato di far valere dinanzi ai giudici l'illegittima applicazione retroattiva della disciplina in materia di stalking, posto che le condotte erano iniziate prima della sua entrata in vigore, ma il reato è continuato anche dopo, con conseguente piena operatività, per la Corte, della normativa in materia di atti persecutori.

Corte di cassazione testo sentenza numero 35588/2017
Valeria Zeppilli

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