La Cassazione ribadisce che si tratta di diffamazione, per la quale è richiesto il dolo generico

di Valeria Zeppilli - Ormai la giurisprudenza non mostra più dubbi: le offese divulgate su Facebook hanno tutte le carte in regola per portare alla condanna del loro autore per diffamazione aggravata.

Recentemente lo ha ribadito la Corte di cassazione nella sentenza numero 2723/2017 pubblicata il 20 gennaio e qui sotto allegata: la natura di tale social network rende la divulgazione di un messaggio per il suo tramite potenzialmente idonea a raggiungere un numero indeterminato di persone che, peraltro, lo utilizzano "proprio allo scopo di instaurare e coltivare relazioni interpersonali allargate ad un gruppo di frequentatori non determinato".

Questa volta, la condanna è toccata a una donna che aveva inviato una serie di messaggi nei quali si riferiva alla vittima appellandola "cornuta". Già nel merito l'imputata era stata ritenuta penalmente responsabile per essersi lasciata andare a commenti poco carini e i giudici di legittimità non hanno potuto fare diversamente.

Con l'occasione, peraltro, dinanzi alla doglianza della ricorrente circa la mancata analisi nel merito dell'elemento soggettivo del reato, i giudici hanno colto l'occasione per precisare che per il delitto di diffamazione è richiesto il dolo generico, ovverosia l'utilizzo consapevole di espressioni che, dato il significato oggettivamente assunto, nel contesto sociale di riferimento sono ritenute offensive.

La donna lamentava, infine, anche la mancata applicazione da parte del giudice del merito della causa di non punibilità di cui all'articolo 131-bis c.p..

A tal proposito la Corte ha però affermato che la questione circa la sua applicabilità, in virtù di quanto previsto dall'articolo 609, comma 2, del codice di rito, non può essere dedotta per la prima volta in cassazione se, alla data della deliberazione della sentenza d'appello, l'articolo 131-bis c.p. era (come nel caso di specie) già in vigore. In altre parole: la ricorrente avrebbe dovuto sollecitare l'applicazione della causa di non punibilità già al giudice del merito, come motivo o anche in fase di decisione.

Se non lo ha fatto, non può tentare di rimediare in sede di legittimità: è troppo tardi.

Corte di cassazione testo sentenza numero 2723/2017
Valeria Zeppilli

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