Prof. Marino Maglietta - Una quantità di insolite valutazioni connota il percorso legale di separazione di 2 magistrati, uno dei quali si trasferisce a grande distanza portando con sé i figli. E' affermato un predominio materno per l'intera età scolare; si attribuisce al difensore la scelta della strategia assolvendone la parte; sono compensate le spese pur rigettando il ricorso.
Sicuramente la circostanza che la rottura del legame riguardi due magistrati non ha influenzato la sostanza della decisione della Suprema Corte nella redazione della sentenza n. 18087/2016 (leggi in merito: "Cassazione: i figli restano con la mamma magistrato che sceglie una sede lontana"), ma ciò non toglie che qualche aspetto particolare l'abbia certamente introdotto. Ad es., se le Corti di Appello dessero sempre risposta a ottobre per reclami contro decisioni pronunciate in agosto l'Italia potrebbe risparmiare una consistente parte di quelle numerosissime condanne che sistematicamente riceve per l'irragionevole durata dei processi. Tutto ciò scandalizza? Certamente no. Ogni categoria riserva qualche vantaggio ai suoi appartenenti; in fondo, i dipendenti di un supermercato quando acquistano qualcosa per sé non fanno mai la coda alle casse...
Guardiamo dunque la sostanza delle decisioni. Vengono accolte le considerazioni e confermata la decisione finale della Corte d'Appello di L'Aquila, secondo la quale la madre ben poteva portare con sé i figli trasferendosi da Vasto a Trieste, avendo vinto un concorso che la collocava a Gorizia. Fin qui in sé nulla di nuovo. E' ben nota, infatti, la tendenza giurisprudenziale a sbilanciare i tempi della frequentazione facendo delle madri un "genitore prevalente", anche quando le circostanze del caso permetterebbero in tutta tranquillità di rispettare il diritto dei figli a un rapporto "equilibrato e continuativo" con entrambi i genitori. Anzi, questo caso presenta in generale aspetti di particolare sensibilità verso le suddette prescrizioni di legge, avendo il Tribunale di Vasto nel 2013 omologato un affidamento con frequentazione paritetica e solo le successive vicende familiari hanno imposto una scelta tra i genitori.
Il problema, dunque, nasce dai dettagli della vicenda e dal modo in cui è stata operata e motivata la condotta del sistema giustizia. La madre era il genitore venuto meno per primo agli accordi di separazione. A dispetto della sua professione - che avrebbe dovuto ispirarle fiducia nei colleghi - aveva tentato di delegittimare il giudice di prime cure ricusandolo. C'era stata una consulenza tecnica di ufficio che aveva concluso, tutto sommato, per una collocazione presso il padre. A questo punto la signora si era scagliata contro la consulenza chiedendone l'annullamento e avanzando una serie di doglianze inammissibili, oltre che infondate nel merito; con ciò dimostrando di essere disposta a tutto pur di raggiungere i suoi scopi, a tutto danno del suo profilo di personalità. Il trasferimento, per quanto si invocassero a Trieste altre parentele della signora, comunque rappresentava innegabilmente uno sradicamento dei figli dal luogo di crescita. Ma tutto questo ha contato zero. Perché? In nome di un unica circostanza a suo favore: essere la madre.
Ed è qui che si supera la consueta prevalenza statistica delle madri nella creazione del cosidetto "genitore collocatario", figura di invenzione giurisprudenziale. In questo caso, difatti, non ci si limita ad una affermazione prudente, motivata dall'età dei figli e contenuta nel tempo, ma ci si sbilancia nel sostenere una dottrina, per giunta abbandonata scientificamente dall'inizio degli anni Settanta, quella della Maternal preference, addirittura utilizzandola in luogo della meno restrittiva "dottrina della tenera età". La differenza è evidente: la tenera età, per quanto ci si sforzi di prolungarla, termina abbastanza presto; una preferenza legata al genere non finisce mai (con buona pace dell'art. 3 della Costituzione, ovviamente). Non a caso, infatti, il riferimento è all'intera "età scolare", il che ci porta allegramente fino alla fine dell'affidamento per raggiunta maggiore età: "In conclusione, non sussistevano ragioni per derogare dal criterio di scelta ordinariamente seguito, che vedeva i bambini in età scolare collocati in via pevalente con la madre, anche quando, come nella specie, il padre avesse dimostrato eccellenti capacità genitoriali."
E a proposito del ricorso al criterio della Maternal Preference alla Cassazione sta bene poiché la sua "teorica valenza scientifica il ricorrente non ha tempestivamente contestato". Ovvero, la Suprema Corte non contesta l'adozione da parte del giudice del reclamo di un criterio "intrinsecamente" discutibile solo perché la parte avversa non si è adeguatamente attivata a criticarla. Ma il giudice non è il "peritus peritorum"? Quindi se l'Appello l'ha accolta è perché la condivide e si sarebbe mosso in tal senso anche se la parte avesse mosso obiezioni. E se Cassazione assolve è perché è anch'essa ideologicamente schierata in tal senso.
Preso, dunque, atto del forte radicamente di questo stereotipo, qualche altro aspetto merita di essere commentato. Davvero curioso, ad es., che sia stata invocata la nullità del procedimento di primo grado sulla base del mancato ascolto di minori di 3 e 5 anni, che nessuna disposizione prevede. Ancora più bizzarra è la motivazione con la quale l'Appello respinge la tesi. Anziché osservare semplicemente che l'obbligo dell'ascolto era posto ante 2013 a 12 anni (con il D.lgs 154/2013 è addirittura scomparso) si lancia in considerazioni di merito in buona parte metagiuridiche (l'ascolto comunque effettuato in CTU, il rischio emotivo per i fanciulli...). Insomma, tra chi chiede l'inchiedibile e chi respinge divagando la sensazione è che la normativa sul punto sia scarsamente conosciuta. Ancora più sconcertante è la considerazione con la quale l'intera condotta processuale della ricorrente viene oggettivamente e comprensibilmente censurata, salvo scaricarne della responsabilità la parte stessa. Anche prescindendo dalla di lei professione, lascia perplessi una affermazione del tipo " Doveva tuttavia considerarsi che le scelte processuali andavano di norma attribuite al difensore, per cui non potevano riverberarsi in danno della parte; ed in tale ottica apparivano irrilevanti ai fini qui considerati". Una stupefacente scissione di responsabilità, che indubbiamente potrebbe tornare estremamente comoda in varie circostanze.... Si potrebbe dire molto di più sul punto, ma non appare questa la sede.
Eppure alla Suprema Corte è andato tutto bene. Anzi, ha dato pure un suo contributo nel creare perplessità quando, nel passaggio finale, compensa le spese processuali in nome della natura della vertenza e del nobile intento di entrambe le parti di meglio realizzare l'interesse dei figli. Una scelta davvero insolita, se si scorrono precedenti decisioni in situazioni pressoché identiche. L'onere segue la soccombenza. Senza cercare lontano, lo stesso precedente che la Corte considera strettamente affine, la sentenza 9633 del 2015, si conclude con la condanna del soccombente alle spese. Vien fatto di pensare che, nella consapevolezza di avere obbedito più alla propria ideologia che al diritto, non si sia voluto aggiungere al danno la beffa.
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