Per i giudici europei, limitare la libertà d'espressione è necessario. Anche per proteggere la reputazione dei potere giudiziario.

La libertà di espressione non può spingersi al punto da ledere la reputazione altrui, ciò si applica in maniera ancor più stringente laddove ciò che viene colpita è la professionalità di un giudice.


Il caso su cui la CEDU (Corte Europea dei diritti dell'uomo) si è trovata a decidere, coinvolge un avvocato nostrano (Peruzzi v. Italy). Il professionista nel 2001 sporgeva denuncia al CSM e contestualmente inviava una lettera circolare a tutti i giudici del Tribunale di Lucca, criticando l'operato di un magistrato resosi "colpevole" di aver deciso volontariamente in maniera erronea, con malizia e negligenza, su un caso relativo a questione ereditaria affidato al legale dalla compagna e dalla figlia del de cuius.


Pur in assenza di esplicita citazione del G.I., la lettera incriminata conteneva riferimenti al provvedimento e altri dettagli circa la controversia che consentivano agevolmente di identificare il magistrato, il quale non mancava, tuttavia, di essere nominato in altre missive che il legale e le sue clienti avevano spedito, tra tutti, anche al CSM e al Ministero della Giustizia.


Per tali ragioni il legale viene denunciato dal magistrato con le accuse di diffamazione, offese e lesione alla reputazione, reati che, esauriti tutti i gradi di giudizio, venivano confermati dalle corti italiane in mancanza di alcun fatto che dimostrasse l'inerzia del giudicante, attaccato soltanto per non aver accolto le richieste del ricorrente.


Il procuratore ha quindi invocato l'intervento dei giudici di Strasburgo, lamentando la lesione dell'art. 10 CEDU sulla libertà d'espressione

I giudici europei hanno ritenuto che il comportamento dell'avvocato si sostanziasse in un attacco personale, stante il tenore di una missiva che oltre a considerazioni generiche sulla magistratura italiana in generale, non mancava di specificare dettagli circa la controversia ereditaria alla base del "j'accuse".


In subordine, la Corte ha valutato che alcuna prova circa la "malizia" lamentata nella decisione del G.I. era stata dall'avvocato prodotta, il quale invece faceva circolare la missiva diffamante ancor prima che il CSM potesse esprimersi sulla faccenda. Pertanto, si sono rivelate proporzionate e sufficienti le misure intraprese dai tribunali nazionali in ragione della lettera fatta circolare dal legale.


In relazione alla presunta violazione dell'art. 10 CEDU, la Corte ha precisato che la limitazione della libertà d'espressione deve, nel caso di specie, "ritenersi necessaria in una società democratica per proteggere la reputazione degli altri e mantenere l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario".


Stante il peculiare ruolo istituzionale che la magistratura svolge nei confronti della collettività, ciò si rende ancor più necessario quando viene coinvolta l'etica professionale, la reputazione e la libertà d'espressione del giudice.

Lucia Izzo

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