Dalla Cassazione una conferma del magistero di legittimità e della Corte di Giustizia europea

Avv. Prof. Stefano Lenghi

1) Il principio statuito dalla Corte di legittimità nella fattispecie oggetto di disamina.

Con sentenza del 06 marzo 2015 n.4601 la Corte di Cassazione, Sez. Civ. Lav., aderendo ad un orientamento ormai consolidato presso la giurisprudenza di legittimità, ha principalmente stabilito che non sussiste cessione di ramo d'azienda, ove l'attività ceduta non costituisca una parte di azienda chiaramente identificabile e distintamente apprezzabile sul piano economico, nonchè tale da assurgere, nel contesto aziendale, ad articolazione organizzativa dotata, rispetto alle altre unità organizzative aziendali, di stabile autonomia funzionale.

2) Le vicende processuali, cui la fattispecie ha dato luogo.

Il giudice di prime cure accoglieva la domanda del dipendente C.G.L., intesa ad accertare l'inefficacia del trasferimento del ramo d'azienda effettuato da T.I. spa alla M.P.F. spa, con conseguente persistenza del rapporto di lavoro con la cedente T.I. spa.

A seguito di giudizio d'impugnazione promosso dalla soccombente società T.I. spa, la Corte d'Appello di Ancona, con sentenza del 04 aprile 2013, confermava in toto la decisione di primo grado.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello di Ancona proponeva ricorso alla Corte di legittimità la società T.I. spa, domandando la cassazione della pronunzia dei giudici di appello in base a quattro motivi, tutti ritenuti infondati dal Supremo Consesso, che ha accolto integralmente le doglianze di parte lavoratrice.

3) Il magistero espresso dalla Suprema Corte.

3.1) Con il primo motivo si assume la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362 e 1406 del codice civile, sostenendosi che l'impugnativa del trasferimento era avvenuta dopo oltre cinque anni dal momento della cessione, ciò che dimostrerebbe la volontà del lavoratore di rinunziare all'impugnazione del contratto di cessione di ramo d'azienda.

Ad avviso della Cassazione tale primo motivo appare infondato alla luce del costante insegnamento della Corte, secondo il quale, per la dimostrazione di un tacito consenso del lavoratore, non è sufficiente il mero decorso del tempo (ove non sia decorso il termine prescrizionale per far valere il diritto), così come neppure la prosecuzione del rapporto di lavoro con la cessionaria, poichè il lavoratore non ha posto in essere alcun comportamento concludente.

3.2) Con il secondo motivo si assume che non sarebbe esistito un autonomo interesse del lavoratore ad un'azione di accertamento.

Anche tale secondo motivo, ad avviso della Suprema Corte, appare infondato. "Va premesso -osserva la Corte- che "l'interesse ad agire, in termini generali, si identifica nell'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice. In particolare, nelle azioni di accertamento, esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all'interessato un pregiudizio concreto ed attuale, che si sostanzia in una illegittima situazione di fatto continuativa e che, perciò, si caratterizza per la sua stessa permanenza (tra le altre: Cass. n. 7096 del 2012; n. 2051 del 2011; n. 11536 del 2006)".

"Su tale premessa si è andato consolidando, dunque, l'orientamento di questa Corte per il quale, in ipotesi di trasferimento di ramo d' azienda, sussiste l'interesse ad agire del lavoratore, stante l'incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico, non eliminabile senza l'intervento di un giudice, tale da arrecare all'interessato un pregiudizio concreto ed attuale che ben può ravvisarsi nel mutamento del datore di lavoro, ed in sostanza nel rapporto di lavoro medesimo, rilevando altresì per il creditore anche la consistenza patrimoniale dell'impresa debitrice (in termini, Cass. n. 21710 del 2012; n. 21771 del 2012). Si è anche evidenziato l'interesse dei lavoratori a non vedersi pregiudicati da operazioni economiche che prescindono dalla effettività delle esigenze organizzative per perseguire intenti elusivi delle norme (Cass. n. 5678 del 2013). Detto interesse qualificato, che altro non è che il riflesso di quell'originario interesse del creditore a non veder mutata, nel rapporto obbligatorio di cui è parte, la persona del debitore della prestazione senza consenso (principio espresso nell'art. 2740 c.c., art. 1268 c.c., comma 1, art. 1272 c.c., comma 1, art. 1273 c.c., comma 1, art. 1406 c.c.), ha trovato nella materia che ci occupa successiva conferma nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), che sottopone a termini di decadenza stragiudiziale e giudiziale l'impugnazione della "cessione del contratto avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento". Sicché non è possibile configurare un termine di decadenza per un'azione inammissibile per mancanza dell'interesse ad agire".

3.3) Con il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione dell'art.2112 del codice civile ai sensi dell'art.360 c.p.c. , comma 1, n.3, poichè "erroneamente il giudice d' appello avrebbe ritenuto insussistente un trasferimento di ramo d' azienda efficace ai sensi della disposizione codicistica per mancanza di autonomia funzionale del ramo ceduto". La sentenza della Corte di merito è stata censurata nella parte in cui ritiene che la esiguità dei beni oggetto della cessione rappresenti una circostanza tale da deporre nel senso della inesistenza del requisito della autonomia funzionale del ramo ceduto, in quanto il ramo ceduto aveva effettivamente svolto l'attività stabilita nel contratto di cessione, per cui non si vede come si possa parlare di mancanza di autonomia funzionale.

Con il quarto motivo si assume l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Il ramo ceduto aveva necessità di beni non particolarmente cospicui ed aveva effettivamente svolto l'attività prevista con i fornitori.

I richiamati terzo e quarto motivo di ricorso sono stati dalla Corte trattati congiuntamente ed anch'essi dichiarati infondati, in pieno accoglimento delle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale.

La Corte d'Appello, infatti, dopo aver dato atto degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità nell'interpretazione dell'art.2112 c.c., ha ribadito che il concetto di "ramo d'azienda", per come definito da tale norma ed interpretato dal supremo magistero giurisprudenziale, nonchè per come definito dalla Direttiva Europea del 12 marzo 2001, 2001/23/CE e per come interpretato dalla Corte di Giustizia UE, deve sostanziarsi in un'entità economica (o articolazione organizzativa o attività organizzata) funzionalmente autonoma ossia dotata, rispetto alle altre unità aziendali, di autonomia funzionale.

Più specificamente, precisa il Supremo Consesso, la Corte territoriale:

a)

da un lato, ha rilevato che l'art.2112 c.c., pur nell'evoluzione del suo testo normativo (sia nel testo sostituito dal D.Lgs. 02 febbraio 2001 n.18, art.1, sia nel testo modificato dal D.Lgs. n.276/2003, art.32), ha mantenuto immutata la definizione di "trasferimento di parte dell' azienda" nella parte in cui essa è "intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata", nozione di trasferimento, questa, coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (Direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE), secondo cui "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23);

b)

dall'altro, ha ricordato che la Corte di Giustizia UE, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario vivente ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C- 340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C- 232/04 e C-233/04, Guney- Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punto 60).

Osserva, pertanto la Suprema Corte, che, ai fini della identificazione del concetto di "ramo d'azienda", dalle inoppugnabili considerazioni della Corte territoriale emerge che, sia sul piano del diritto positivo italiano che sul piano della normativa europea, l'elemento caratterizzante e criterio selettivo è costituito dall'autonomia funzionale dell'unità organizzativa ceduta, elemento che "consente di affrontare e scongiurare ipotesi in cui le operazioni di trasferimento si traducano in forme incontrollate di espulsione di personale. Pertanto nessuna censura può essere addebitata alla sentenza impugnata laddove assume il canone della "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata" quale pre-requisito indispensabile per configurare una efficace cessione del contratto di lavoro senza il consenso del lavoratore, prima ed oltre la questione della preesistenza del ramo ceduto". Precisa, ancora, la Suprema Corte che correttamente la Corte d'Appello ha escluso che nella fattispecie considerata "fossero emerse circostanze tali da far ritenere che nella specie fosse stata trasferita una attività organizzata funzionalmente autonoma", avendo i giudici territoriali accertato che "la cessione aveva riguardato dotazioni di ufficio assolutamente esigue ed erano stati limitati a soli ventimila euro gli interventi manutentivi trasferiti, così come una serie di interventi erano stati conservati alla diretta gestione del cedente. Non era emersa una stabile e persistente funzionalizzazione del complesso ceduto, l'esistenza di un servizio chiaramente individuato e distintamente apprezzabile sul piano economico".

"Si tratta", chiosa la Corte di legittimità, "di un percorso motivazionale sufficiente e non contraddittorio, formalmente coerente nell'equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, immune da vizi logici o giuridici cui si pongono censure generiche e comunque di merito. In una prospettiva processuale, poi, occorre rilevare che - come condivisibilmente sostenuto dalla Corte territoriale - incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c. quale eccezione al principio del necessario consenso del lavoratore creditore ceduto, fornire la prova dell'esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l'operatività: grava, cioè, sulla società cedente l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti concretanti un trasferimento di ramo d' azienda (cfr., in motivazione, Cass. n. 206 del 2004). Nella specie tale prova, secondo la valutazione di merito del giudice d'appello non è stata fornita, né parte ricorrente individua fatti controversi e decisivi che sarebbero stati trascurati dalla Corte territoriale, in rapporto di causalità tale con la soluzione giuridica della controversia da far ritenere, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, che la loro corretta considerazione avrebbe comportato una decisione diversa. L'accertamento della insussistenza degli elementi che connotano una cessione di ramo d'azienda è di competenza del Giudice di merito ed è stata congruamente e logicamente motivata con riferimento a specifiche circostanze che appaiono genericamente contestate". Non sussistono, pertanto, conclude il supremo magistero, neppure le carenze motivazionali lamentate nel terzo e quarto motivo, per cui "si deve rigettare il proposto ricorso", con spese di legittimità (liquidate come da dispositivo) che seguono la soccombenza in favore della parte costituita.

4) Riflessioni a margine della decisione in commento.

Volendo esprimere una valutazione in merito alle conclusioni cui è pervenuta la sentenza de qua, non possiamo che condividere in toto la linea di pensiero espressa dalla Suprema Corte, in piena sintonia, oltretutto, con il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità e della Corte di Giustizia UE.

Tale condivisione di convincimenti, anche con specifico riferimento ai motivi su cui si fonda il ricorso ai supremi giudici, si basa sul seguente ordine di considerazioni, che proponiamo all'attenzione del lettore:

4.1) Dalla mancata impugnativa del contratto di cessione per un periodo di oltre cinque anni nessun comportamento concludente del lavoratore costituente tacita rinunzia all'impugnativa stessa.

In ordine al primo motivo su cui si fonda il ricorso, ci sembra proprio che il far discendere unicamente dal mero decorso del tempo (impugnativa della cessione avvenuta dopo cinque anni dalla stessa) e dal fatto della prosecuzione del rapporto di lavoro con la cessionaria, una tacita rinunzia, per facta concludentia, all'impugnativa del contratto, sia in contrasto con un principium juris ormai confortato da un univoco orientamento giurisprudenziale, occorrendo, a tal fine, elementi o, meglio diremmo, atti e/o comportamenti concreti ed inequivocabili attestanti la volontà di rinunzia, da parte del lavoratore, a far valere i propri diritti nei confronti della parte cedente. Ciò è tanto più vero nell'ambito del diritto del lavoro subordinato, se si pensa che proprio il lavoratore dipendente, in quanto parte più debole del rapporto di lavoro (e per questo meritevole di adeguata tutela), pur di non alterare il rapporto con i suoi datori di lavoro e conservarsi il posto di lavoro, è indotto, per timore di ritorsioni o, comunque, di reazioni negative da parte di essi, ad accettare in silenzio la cessione, senza sollevare eccezione alcuna, e, quindi, a proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario, riservando, semmai, ad un momento successivo il proposito di avanzare contestazioni ed impugnative.

4.2) Sussistenza dell'interesse del lavoratore ad agire in giudizio.

In relazione al secondo motivo, non possiamo che riportarci alle considerazioni svolte dalla Corte Suprema, chiare ed esaustive. In ogni fattispecie di trasferimento d'azienda o di ramo d'azienda sussiste, infatti, in re ipsa, l'interesse del lavoratore ad agire in giudizio (essendo il giudizio l'unico modo per realizzare la tutela dell'interesse stesso) in relazione al pregiudizio concreto ed attuale, che potrebbe derivare al lavoratore dal mutamento del soggetto "datore di lavoro".

Ciò sia per effetto delle eventuali più deboli condizioni economico-finanziario-patrimoniali dell'impresa cessionaria o della sua minore solidità o redditività rispetto all'impresa cedente, sia per altre caratteristiche decisamente non favorevoli al lavoratore ceduto (si pensi all'allontanamento del lavoratore ceduto dal luogo di lavoro precedente, centro della sua vita familiare e sociale; al tipo di prestazione assai più onerosa, impegnativa e stressante; alla allocazione geografica del ramo ceduto in area contrassegnata da problemi di costo della vita elevato, di condizioni sanitarie non adeguatamente tutelate e, comunque, nocive o non salutari per il lavoratore, o di sottosviluppo economico-sociale; al nuovo ambiente lavorativo od extralavorativo non salubre o non sereno o caratterizzato da un pesante clima sotto il profilo delle relazioni umane e sociali, ecc.). Non secondario, infine, deve considerarsi l'interesse del lavoratore, chiamato in causa da Cass. n.5678 del 2013, a non subire, attraverso l'utilizzo del tutto strumentale della cessione di ramo d'azienda, espulsioni dall'impresa cedente per ragioni che nulla hanno a che vedere con le effettive esigenze organizzative o che, pur inerendo ad esigenze organizzativo-produttive, si fondano prevalentemente sulla volontà del cedente di liberarsi di lavoratori scomodi o ritenuti non più adeguati sul piano della produttività o delle politiche gestionali o sotto il profilo comportamentistico.

4.3) Il concetto di "ramo d'azienda" o di "parte dell'attività economica organizzata" oggetto di cessione.

Anche con riferimento al terzo e quarto motivo, la Corte regolatrice ha espresso una linea di pensiero, che si inserisce in quel filone della giurisprudenza di legittimità, che è espressione di un insegnamento del tutto univoco.

Vediamo di risoffermarci sul concetto di "ramo d'azienda", al fine di coglierne, alla luce della normativa italiana ed europea, nonchè della giurisprudenza delle supreme magistrature italiana ed europea, quegli elementi che, pur nell'ambito dell'evoluzione normativa che ha caratterizzato la disciplina del trasferimento d'azienda nel tempo, si pongono come il nucleo identificativo del concetto stesso e che, come tali, costituiscono i requisiti, la cui sussistenza deve considerarsi, al pari di altri requisiti, imprescindibile, perchè possano prodursi nei confronti dei lavoratori ceduti gli effetti previsti dall'art.2112 c.c. .

Tale norma, infatti, sia nel testo sostituito (a decorrere dal 01 luglio 2001) dall'art.1 del D.Lgs. 02 febbraio 2001 n.18, sia nella formulazione del quinto comma, così come sostituito dall'art.32, primo comma, del D.Lgs.10 settembre 2003 n.276), ha mantenuto immutata la nozione di "azienda" come di una "attività economica organizzata" e quella di "ramo d'azienda" come di un' "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata" (vale a dire: "azienda" come il complesso dei beni -risorse materiali, risorse umane e risorse finanziarie- che un soggetto, per l'appunto l'imprenditore, è chiamato ad organizzare e gestire per l'esercizio dell'impresa, ovverosia in vista del raggiungimento degli obiettivi che come imprenditore si è prefissato, vale a dire la produzione e/o la vendita di beni e/o servizi in regime di profitto; e "ramo d'azienda" come un'articolazione organizzativa dell'azienda, un'unità micro o macro-organizzativo-produttiva dell'azienda, che sia, però, dotata di autonomia funzionale).

Ove, pertanto, oggetto della cessione sia solo una parte dell'intera attività economica aziendale, una parte (macrostruttura o microstruttura) di tutta l'azienda, il complesso di beni dovrà essere dotato di una sua propria autonomia organizzativa, gestionale ed economica, funzionale allo svolgimento di una attività di produzione di beni e servizi (così, ad es., Cass., 04 dicembre 2002 n.17207), per cui dovrà sostanziarsi in una unità, in un servizio, in una funzione, in un insieme di uffici, considerato in sè e per sè (ovvero prescindendo dalla restante organizzazione aziendale) idoneo a produrre beni e servizi in regime di autonomia organizzativa e gestionale, come se si trattasse di una piccola struttura imprenditoriale a sè stante, organizzata, gestita e guidata da un responsabile che combina insieme le risorse materiali, umane e finanziarie che la compongono.

Come ha sottolineato la Suprema Corte, il nucleo dell'art.2112 c.c. riguardante il trasferimento di parte dell'azienda è rimasto, pertanto, immutato, non essendo stato investito dalle modifiche, che hanno, invece, riguardato, con riferimento all'articolazione appena richiamata, la soppressione dell'inciso "preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità" e l'aggiunta testuale "identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento". Prosegue la Corte osservando che "detta nozione di trasferimento di ramo di azienda nella parte di testo non modificata è coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE), secondo cui "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).

La nozione di "ramo d'azienda", che emerge dalle suesposte considerazioni, è pienamente conforme a quella che risulta dal magistero interpretativo della Corte di Giustizia UE (più sopra richiamato), alla luce del cui pensiero, più volte confermato, la nozione di entità economica si sostanzia in un complesso organizzato di persone e di elementi, che sia idoneo a consentire l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obiettivo.

Da tutto quanto sopra emerge chiaramente come, nel caso di cessione di parte dell'attività economica organizzata aziendale, essa deve consistere, per esprimerci con una proposizione di sintesi, in un'articolazione aziendale, che, in sè e per sè considerata, sia dotata di autonomia organizzativa, gestionale ed economica tale da essere funzionale allo svolgimento di un'attività di produzione di beni e servizi , ovverosia, in una parola, dotata, per usare il linguaggio della Corte, di autonomia funzionale.

Correttamente, pertanto, i giudici di legittimità hanno condiviso le argomentazioni della Corte d'Appello, secondo cui il ramo oggetto di cessione non poteva considerarsi un'attività organizzata "funzionalmente autonoma", non essendo emersa "una stabile e persistente funzionalizzazione del complesso ceduto, un servizio chiaramente individuato e distintamente apprezzabile sul piano economico" e tenuto anche conto che "la cessione aveva riguardato dotazioni di ufficio assolutamente esigue", che gli interventi manutentivi trasferiti erano stati limitati a soli ventimila euro e che "una serie di interventi era stata conservata alla diretta gestione del cedente".

In altri termini, la struttura ceduta era costituita da dotazioni veramente di scarsissima consistenza e non poteva assurgere ad unità organizzativa, a servizio aziendale organizzativamente identificabile in relazione alle specifiche attività da svolgere e tale da essere in grado di produrre, in regime di autonomia funzionale, beni e servizi chiaramente e stabilmente individuati, nonché apprezzabili sul piano economico.

Va da sè, naturalmente, ed in ciò concordiamo con le conclusioni della Corte, che la cessione di un siffatto "ramo" renderebbe il "trasferimento di ramo d'azienda" non uno strumento per soddisfare apprezzabili esigenze economico-produttive del cedente e del cessionario, bensì un mezzo mediante il quale il cedente, sul preteso presupposto di un'operazione industriale esclusivamente dettata da ragioni di produttività aziendale, può perseguire precipuamente il fine di liberarsi di risorse umane ritenute a lui non più confacenti.

4.4) La questione del requisito della "preesistenza al trasferimento del ramo ceduto" alla luce del magistero di legittimità e della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.

Un accenno a tale questione è imprescindibile, in quanto, anche se non oggetto del contenzioso di cui alla decisione de qua, è strettamente connessa all'evoluzione dell'assetto normativo, di cui all'art.2112 c.c. .

Il quinto comma dell'art.2112 c.c., così come modificato dall'art.32 del D.Lgs. 10 settembre 2003 n.276 (c.d. Decretazione Biagi), prevede, nella sua seconda parte, che "le disposizioni dell'art.2112 c.c. si applicano, altresì, al trasferimento di parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata , identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".

Come può notarsi, tale seconda parte del quinto comma ha soppresso l'inciso presente nella prima parte "preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità", mentre, dopo le parole "di un'attività economica organizzata" ha aggiunto testualmente le parole "identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento".

In relazione a tale innovazione introdotta dall'art.2112 c.c., quinto comma, seconda parte, la sentenza in commento, non avendo dovuto occuparsi della questione interpretativa, si è limitata ad osservare che, sull'aspetto della preesistenza del ramo ceduto, di recente la Corte di Giustizia UE, pregiudizialmente sollecitata da un giudice italiano proprio in riferimento alla formulazione dell'art. 2112 c.c. novellata dall'art. 32 del cit. D.Lgs., ha testualmente ritenuto che "L'art. 1, paragrafo 1, lett. a) e b), della Direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, ..., deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento" (CGUE, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed altri).

La diversa formulazione dei due disposti normativi (art.2112, comma 5, prima parte, c.c. ed art.2112, comma 5, seconda parte, c.c.) e, soprattutto, la formulazione incerta della novella legislativa della seconda parte dell'art.2112, comma 5, hanno condotto ed indotto dottrina e giurisprudenza ad assumere due diverse interpretazioni, che ancor oggi si contendono il campo. L'una ritiene che la nuova norma, nonostante l'ambiguità della sua formulazione, abbia tuttavia confermato la necessità del requisito secondo cui il "ramo" o l'articolazione organizzativa funzionalmente autonoma da rendere oggetto di cessione deve preesistere, in quanto tale, al "trasferimento", senza che il cedente lo abbia strumentalmente forgiato, manipolato in funzione della cessione stessa (ovverosia il ramo deve consistere in quella parte di azienda che era già identificabile come tale prima che insorgesse il proposito di renderlo oggetto di cessione ad un terzo). L'altra, invece, opina che la novella legislativa abbia volutamente inteso superare detto requisito, ben potendo l'articolazione organizzativa funzionalmente autonoma essere come tale identificata e, cioè, forgiata ad hoc al momento in cui ci si appresta a rendere operativa l'operazione (se la parte di impresa oggetto di cessione può essere identificata dalle parti al momento del trasferimento, assumono i fautori di questa tesi, ciò sta a significare che la norma ha inteso devolvere alle parti (cedente e cessionario) il potere di "forgiare", plasmare, riassettare la struttura del ramo, affinchè l'operazione possa soddisfare nel modo migliore le esigenze di entrambe le parti stesse).

La questione presenta notevole rilevanza in relazione all'esigenza di tutela dei lavoratori. Se, infatti, forti della seconda linea interpretativa, cedente e cessionario, nel forgiare ad hoc il "ramo" o l'articolazione organizzativa funzionalmente autonoma, avessero inserito nel medesimo lavoratori ad esso non appartenenti, detti lavoratori, sul presupposto della loro non appartenenza al "ramo" o all'articolazione organizzativa ceduta, potrebbero sostenere che, non potendosi per loro parlare di trasferimento di "ramo" o di articolazione organizzativa funzionalmente autonoma, cedente e cessionario hanno realizzato una vera e propria cessione del contratto individuale di lavoro (ai sensi dell'art.1406 del codice civile), che, come abbiamo già osservato, è un contratto trilatero e, come tale, richiede il consenso del cedente, del cessionario ed anche del lavoratore ceduto, per cui, non avendo prestato il loro consenso, potrebbero ricorrere al giudice perché dichiari la nullità della cessione di contratto stessa e la permanenza del loro rapporto di lavoro in capo al cedente.

Senza voler qui condurre una approfondita trattazione della problematica de qua (non essendo questa, ovviamente, la sede opportuna), ci preme soltanto molto succintamente sottolineare che, pur avendo la Corte di Giustizia dell'Unione europea, nella sua sentenza 06 marzo 2014, causa C-458/12, affermato la compatibilità della legislazione nazionale con quella comunitaria, l'attuale magistero della Suprema Corte ha sposato in modo deciso la prima linea di pensiero, invocando a sostegno del proprio assunto proprio la sentenza della Corte comunitaria, che, invece, sembrerebbe, almeno per certi versi, aver professato proprio la seconda linea di pensiero.

La recente giurisprudenza di legittimità (richiamiamo, in proposito, Cass. Civ. Lav.27 maggio 2014 n.11832, ma anche Cass. Civ. Lav.15 aprile 2014 n.8757 e Cass. Civ. Lav. 03 ottobre 2013 n.22627), infatti, considera «operante, anche a seguito del d.lgs. n. 276 del 2003, art. 32, il principio per cui per "ramo d'azienda" o per articolazione organizzativa funzionalmente autonoma, ai sensi dell'art. 2112 c.c., deve intendersi ogni entità economica organizzata la quale, in occasione del trasferimento, conservi la sua identità - come del resto previsto dalla prima parte del d.lgs. n. 276 del 2003, art. 32 - presupponendo ciò comunque una preesistente entità produttiva funzionalmente autonoma (potendo conservarsi solo qualcosa che già esiste), e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento o come tale unicamente identificata dalle parti del negozio traslativo, essendo preclusa l'esternalizzazione come forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore e non dall'inerenza del rapporto ad una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità»

Ma ciò che più ci preme in proposito osservare è che la Corte di legittimità, nella sua sentenza Cass. Lav.27 maggio 2014 n.11832, oltre ad addurre la propria precedente giurisprudenza, invoca, a conforto della sua tesi, proprio la Direttiva 2001/23/CE (secondo la quale il concetto di trasferimento d'azienda inerisce alla cessione di un'articolazione organizzativa d'impresa che mantenga la sua identità come complesso di beni finalizzato allo svolgimento di un'attività economica) e la summenzionata giurisprudenza comunitaria, alla luce delle quali, ad avviso del Supremo Consesso italiano, la cessione di azienda, anche nella concezione comunitaria, postulerebbe il requisito della preesistenza della parte di azienda oggetto di cessione.

Anche se non si può non cogliere qualche segno di forzatura nel pensiero della Suprema Corte, sia pur se posto in essere con l'apprezzabile intento di apprestare una tutela più intensa alle posizioni di quei lavoratori, che potrebbero avere un sensibile interesse a non proseguire il rapporto di lavoro con il cessionario, è chiaro che, nonostante gli spazi interpretativi che la novella legislativa sembra offrire per ipotizzare un'interpretazione di segno opposto, debba ormai prendersi atto della direttrice di marcia tracciata dalla giurisprudenza di legittimità.

Non possiamo, pertanto, che richiamare l'attenzione degli operatori imprenditoriali e dei giuristi che li assistono sull'opportunità che, nella identificazione della trasferenda parte di azienda, non si intervenga a modificare, mediante incorporazioni, scorpori, scissioni o unificazioni organizzative frutto della esclusiva volontà di cedente e cessionario, la struttura organizzativa del "ramo" o dell'articolazione funzionalmente autonoma (al fine di forgiare, plasmare, riassettare il "ramo" o l' "articolazione", onde renderli conformi alle loro personali esigenze!), ma ci si limiti a rendere oggetto di cessione il ramo stesso come già strutturalmente ed organizzativamente preesistente prima dei propositi di cessione, senza interventi di tipo organizzativo che possano in qualche modo alterarne la identità, la fisionomia, la precedente funzionalità e finalità produttiva. Ciò almeno sino a quando il supremo magistero di legittimità continuerà a confermare il suo alto insegnamento (rammentiamo al lettore che la questione della preesistenza del ramo ceduto al trasferimento è stata oggetto di trattazione, anche se succinta, in un nostro precedente intervento, al quale rinviamo, pertanto, il lettore stesso (cfr. Stefano Lenghi, "Operazioni di esternalizzazione (outsourcing) ed internalizzazione dei processi produttivi su territorio italiano nel contesto del vigente ordinamento giuslavoristico: tipologie contrattuali, modelli di gestione ed indicazioni operative", pubblicato il 22 gennaio 2015 su questo Portale, paragrafo 3.2.1), punto d). Sulla questione richiamiamo l'attenzione del lettore anche sull'articolo di Carmine Santoro, "Cessione di ramo d'azienda: la Cassazione insiste sulla preesistenza", in Bollettino Adapt, 16 giugno 2014 n.24).

4.5) Conseguenze dell'inefficacia del trasferimento d'azienda nei confronti dei lavoratori ceduti.

Poiché nella operazione di trasferimento d'azienda o di parte di essa, l'impresa cedente trasferisce all'impresa cessionaria il diritto di proprietà (o di usufrutto o di affitto) su tutto il complesso di beni unitariamente considerato (insomma, siamo in presenza di un contratto che trasferisce il diritto di proprietà o di usufrutto o di affitto sul "contenitore" in quanto tale e, quindi, su tutto ciò che il contenitore comprende, ovverosia su tutto ciò che è contenuto nel "recipiente", cioè nell'azienda o nella parte funzionalmente autonoma di essa), ai fini della validità dell'operazione stessa non si richiede il consenso delle risorse umane appartenenti al complesso di beni trasferito (poiché oggetto di cessione è il ramo globalmente considerato e non le risorse umane che nel ramo stesso confluiscono), per cui rapporto di lavoro è automaticamente, de jure, ceduto al cessionario, a differenza di quanto avviene, invece, quando un datore di lavoro cede (non l'azienda o un ramo od una articolazione organizzativa funzionalmente autonoma globalmente considerata, ma) il singolo contratto individuale di lavoro con un proprio dipendente ad un terzo, il quale subentra, senza soluzione di continuità, al precedente datore di lavoro nella sua stessa identica posizione, proseguendo il rapporto stesso. In tale ultima ipotesi siamo in presenza di una cessione di contratto individuale di lavoro che, come per la cessione di ogni contratto a prestazioni corrispettive (art.1406 del codice civile), trattandosi di contratto trilatero, esige il consenso del cedente, del cessionario e del contraente (nel nostro caso, lavoratore) ceduto, consenso che può essere prestato anche per "facta concludentia", e, cioè, attraverso il fatto di rendere la prestazione.

Ciò posto, ove, come nella fattispecie oggetto di disamina da parte della sentenza in commento, il trasferimento d'azienda o di parte di essa, sia dichiarato, per la mancanza del requisito dell'autonomia funzionale del ramo ceduto, inefficace, ai sensi dell'art.2112 c.c., nei confronti dei lavoratori ceduti, ne consegue che non si è dato luogo alla stipulazione di un efficace contratto di trasferimento di parte d'azienda, ma unicamente, sul piano giuslavoristico, ad una cessione del contratto individuale di lavoro ex art.1406 c.c., negozio, questo, che dovrebbe intervenire tra cedente, cessionario e lavoratore ceduto e, nella specie, illegittimo, poiché, trattandosi di contratto trilatero, il rapporto di lavoro avrebbe potuto considerarsi effettivamente ceduto senza soluzione di continuità al cessionario, ai sensi del'art.1406 c.c., soltanto nel caso in cui anche il lavoratore ceduto avesse espresso il suo consenso ad essere ceduto al cessionario nell'ambito di un accordo specifico di cessione del contratto individuale di lavoro.

Per effetto di quanto sopra e della pronunzia della Corte regolatrice, il lavoratore ceduto, nella specie il sig. C.G.L., nei cui confronti il trasferimento di parte d'azienda è stato dichiarato anche dalla Corte stessa inefficace, ha, pertanto, diritto a proseguire, senza soluzione di continuità, il suo rapporto di lavoro con l'impresa cedente, nella specie la T.I. spa.

A conclusione del presente paragrafo vorremmo, però, rimarcare che, se è vero che, nel caso di valido trasferimento d'azienda o di parte di essa, come sappiamo, il lavoratore ceduto, ai sensi dell'art.2112, primo comma, c.c. prosegue il rapporto di lavoro de jure, automaticamente, senza soluzione di continuità, con il cessionario, che subentra e si sostituisce al cedente nella sua identica posizione per continuare il rapporto stesso (ed il lavoratore ceduto conserva l'anzianità di servizio maturata presso il cedente e la prosegue con il cessionario), è altrettanto vero che, ove un lavoratore fosse interessato ad impedire la automatica prosecuzione del suo rapporto di lavoro con il cessionario, non gli resterebbe che stipulare un accordo, da considerarsi del tutto lecito (vedi sentenza Corte di Giustizia UE 24 gennaio 2002 n.51), mediante il quale le parti convengono che, a fronte della cessione del ramo d'azienda, il lavoratore stesso continui a prestare la sua attività alle dipendenze del cedente.

Rileviamo subito che tale accordo non si porrebbe in contrasto con l'art.2112, primo comma, c.c., alla luce del quale nel caso di trasferimento d'azienda o di parte di essa il rapporto di lavoro dovrebbe proseguire ope legis con il cessionario, in quanto il disposto di tale norma si fonda sul tacito presupposto che, normalmente, l'interesse del lavoratore sia quello di proseguire il suo rapporto con il cessionario e non quello di proseguire il rapporto con il cedente.

Ove, però, il lavoratore dovesse ritenere maggiormente garantito il suo interesse dalla prosecuzione del rapporto di lavoro con il cedente, e stipulasse il richiamato accordo, essendo detto accordo chiamato a realizzare la tutela dell'interesse del lavoratore subordinato in quanto parte più debole del rapporto e, per questo, meritevole di protezione, l'accordo stesso, in base al principio-criterio del favor praestatoris, sarebbe da considerarsi in linea di diritto pienamente legittimo (in quanto più favorevole al lavoratore rispetto alla disciplina dell'art.2112 c.c.), ciò che è stato opinato anche dal pensiero giurisprudenziale di legittimità (ad es., Cass., Sez. Civ. Lav., 21 maggio 2002 n.6103), che si è pronunziato nel senso secondo cui la disciplina dell'art.2112 c.c. non può trovare applicazione nei confronti di quei dipendenti che, nonostante la cessione d'azienda o di parte d'azienda, continuino, con il tacito consenso del cedente, a prestare la loro attività in favore dell'imprenditore cedente stesso.

5) E, per completezza di trattazione, una rivisitazione del concetto di "trasferimento" d'azienda.

Cogliamo l'occasione di questo nostro intervento per riesplorare, già che siamo in argomento, il concetto di "trasferimento" d'azienda e di parte di essa, rammentando, comunque, come già segnalato nel paragrafo precedente, che, in un nostro precedente articolo, abbiamo già avuto occasione di soffermarci, a proposito delle operazioni di esternalizzazione (outsourcing) dei processi produttivi, sulla tematica del trasferimento d'azienda, per cui a tale nostro contributo rinviamo ora, in relazione ai vari aspetti, il lettore (cfr. Stefano Lenghi, "Operazioni di esternalizzazione (outsourcing) ed internalizzazione dei processi produttivi su territorio italiano nel contesto del vigente ordinamento giuslavoristico: tipologie contrattuali, modelli di gestione ed indicazioni operative", pubblicato il 22 gennaio 2015 su questo Portale, paragrafo 3.2.1).

5.1) Cosa si intende per "trasferimento" d'azienda e di ramo d'azienda?

Ai sensi dell'art.2112, quinto comma, del codice civile, per trasferimento d'azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento della titolarità di una attività economica organizzata, con o senza fini di lucro, preesistente al trasferimento e che con il trasferimento stesso conserva la sua identità.

Ricorre, pertanto, la fattispecie del "trasferimento" d'azienda o di ramo d'azienda, allorquando, per effetto di un negozio contrattuale di natura traslativa (compravendita, affitto, comodato, usufrutto) o per effetto di una operazione societaria (fusione, scissione) ed indipendentemente dallo strumento contrattuale all'uopo utilizzato, si realizza il mutamento del soggetto titolare del complesso dei beni aziendali (azienda) o di parte del complesso dei beni aziendali (ramo) di una determinata impresa.

Quando parliamo di "azienda", rammentiamo che l'art.2555 c.c. definisce l'azienda come il complesso dei beni -"risorse materiali", come beni immobili e mobili, materie prime, semilavorati, prodotti, impianti e strumenti di lavoro, ecc., "beni immateriali", "risorse finanziarie", "risorse umane"- organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa. Quando, d'altra parte, parliamo di "ramo di azienda", intendiamo riferirci, ai sensi dell'art.2112 c.c., quinto comma, seconda parte, ad una articolazione organizzativa, che venga identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento di procedere al suo trasferimento, a condizione che, come già si è ripetuto, sia dotata di autonomia funzionale e fatto salvo, comunque, quanto già più sopra osservato in merito alla questione del requisito della "preesistenza" del ramo da trasferire al trasferimento.

Da tale definizione consegue che l'ipotesi del trasferimento d'azienda comporta una successione a titolo particolare, un subentro, da parte di un soggetto, nella titolarità dei diritti di proprietà, di usufrutto o di affitto su un'attività economica organizzata; una sostituzione, una surrogazione del soggetto titolare dei beni destinati all'esercizio dell'impresa con altro soggetto.

Non è necessario che il trasferimento d'azienda abbia luogo mediante un unico atto di cessione, ben potendo la successione nella titolarità del complesso di beni aziendali essere realizzata anche attraverso una pluralità di negozi traslativi.

Per determinare se le parti hanno voluto realizzare un trasferimento d'azienda od una mera cessione di singoli beni, è necessario accertare se le parti stesse hanno voluto operare il trasferimento della titolarità dei beni considerati nella loro globale unitarietà di complesso organizzativo idoneo a svolgere un'attività di produzione di beni e servizi e, cioè, nel loro collegamento funzionale, oppure se esse abbiano, invece, inteso trasferire la titolarità dei beni considerati nella loro singola individualità. E' chiaro, infatti, che una cessione di singoli beni o di singoli impianti o strumenti, che prescinda dal loro collegamento funzionale, è del tutto estranea alla fattispecie del trasferimento d'azienda.

Alla luce della definizione di trasferimento d'azienda quale desumibile dall'art.2112, quinto comma, c.c., non possono ricondursi nell'ambito del trasferimento d'azienda:

5.1.1) l'ipotesi del trasferimento del pacchetto azionario, poichè, in tal caso, non si determina alcun mutamento del soggetto titolare dei beni aziendali, dal momento che la società mantiene inalterata la sua soggettività giuridica e, pertanto, la titolarità del complesso dei beni destinati all'esercizio dell'impresa.

Se, ad es., gli azionisti di maggioranza della società Alfa spa cedono contrattualmente il loro pacchetto azionario ad altre persone fisiche o ad un'altra società, che viene, così, ad acquistare il pacchetto azionario di maggioranza di Alfa spa e, quindi, il controllo economico di Alfa, è chiaro che titolare del complesso dei beni aziendali della società Alfa spa rimane, comunque, la stessa Alfa spa, la cui soggettività giuridica è rimasta inalterata;

5.1.2) l'ipotesi del collegamento societario nel gruppo societario, in quanto le singole società della holding, indipendentemente dal collegamento societario ovvero dalla appartenenza ad un medesimo gruppo economico, mantengono la propria autonomia come soggetti giuridici, nonchè la propria personalità giuridica, per cui ciascuna società della holding resta esclusiva titolare dei rapporti di lavoro subordinato con i propri dipendenti, anche quando i medesimi dovessero rendere la loro prestazione presso società consociate o collegate del gruppo. Il fatto, pertanto, che un lavoratore possa prestare, nel tempo, la sua attività lavorativa alle dipendenze di società diverse di un gruppo non comporta la unificazione dei singoli rapporti di lavoro, poichè il concetto di "gruppo di società" ha una rilevanza meramente economica e ad alcuni effetti giuridici, ma non sul piano giuslavoristico;

5.1.3) l'ipotesi del mutamento della forma giuridica della società, in quanto, se anche si modifica la forma giuridica di una società attraverso la trasformazione della società da un tipo (ad es., sas) ad un altro (ad es., spa), il soggetto giuridico rimane lo stesso e ciò che muta è soltanto la sua veste giuridica;

5.1.4) l'ipotesi dell'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto, che, per espressa disposizione dell'art.29, terzo comma, del D.Lgs. n.276/2003, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda.

Per quanto concerne, invece, l'ipotesi dell'impresa in regime di concessione, il cui esercizio è subordinato a concessione da parte della Pubblica Autorità, la giurisprudenza italiana, in contrasto con quella comunitaria, aveva in passato ritenuto l'inconfigurabilità di un trasferimento d'azienda, nel caso in cui fosse intercorsa scadenza o revoca della concessione e nuovo affidamento ad un soggetto terzo, dal momento che, in tal caso, il subentrante avrebbe svolto la propria attività imprenditoriale a titolo originario, in ragione del provvedimento autoritativo di concessione amministrativa e non in base ad un libero negozio contrattuale di natura traslativa.

L'art. 32 del D.Lgs. n. 276/2003, poi, ha espunto dalla nuova formulazione dell'art. 2112 c.c. ogni riferimento al trasferimento di azienda operato tramite provvedimento autoritativo della pubblica amministrazione.

Sebbene tale silenzio normativo possa essere letto quale conferma dell'inapplicabilità dell'art. 2112 c.c. all'ipotesi di trasferimento d'azienda operato in via originaria per il tramite di una concessione amministrativa, occorre, però, considerare che alcune pronunzie rese più recentemente dalla Suprema Corte hanno riconosciuto la superiorità delle norme comunitarie (come interpretate dalla Corte di Giustizia) su quelle nazionali con esse contrastanti, stabilendo che l'art. 2112 c.c. trova applicazione, nel caso di dipendenti privati, anche nell'ipotesi di trasferimento di impresa conseguente ad un atto unilaterale autoritativo della P.A.. E non si può, a nostro modesto parere, non riconoscersi, in piena sintonia con l'indirizzo espresso dalla più recente giurisprudenza di legittimità e della Corte di Giustizia UE, che, indipendentemente dal fatto che il trasferimento d'azienda trovi la sua fonte di derivazione giuridica da un factum principis o da una volontà contrattuale, non viene obiettivamente meno, nell'ambito di una attività imprenditoriale che continua, il fenomeno del subentro di un nuovo imprenditore a quello precedente nella titolarità dei diritti sul complesso dei beni organizzato per l'esercizio dell'attività economica d'impresa, per cui, anche in silentio legis, non si vede come possa negarsi l'estensione alla fattispecie in discussione delle tutele, che l'art.2112 c.c. intende accordare ai lavoratori ceduti, stante l'identità dei presupposti per l'applicazione della norma stessa.

Identico discorso, d'altra parte, dev'essere predicato in ordine all'art.29, terzo comma, del D.Lgs.n.276/2003, che si preoccupa dell'ipotesi in cui, cessato il rapporto di appalto all'interno dell'azienda, subentri al precedente appaltatore un nuovo appaltatore e, in particolare, di tutelare il nuovo appaltatore, che, spesso, in base alle norme del contratto collettivo nazionale di lavoro, è tenuto ad assumere i dipendenti del precedente appaltatore.

Al fine di alleggerire l'onere economico a carico del nuovo appaltatore, detta norma dispone che l'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto, avvenuta a seguito di subentro di un nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto di appalto, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda.

Sul piano dei rapporti di lavoro ciò comporta che, nella fattispecie de qua, non si realizzi alcuna prosecuzione dei rapporti di lavoro tra il precedente appaltatore ed il nuovo appaltatore, per cui il nuovo appaltatore potrà procedere all'assunzione ex novo dei lavoratori stessi con un nuovo contratto individuale di lavoro, ciò che comporta, per detti lavoratori, la "non prosecuzione" con il nuovo appaltatore del rapporto di lavoro instaurato con il precedente appaltatore e la conseguente impossibilità di conservare l'anzianità di servizio maturata presso il precedente appaltatore e, quindi, certamente un pregiudizio sul piano della loro tutela.

Giova solo osservare, in proposito, che vi sono da nutrire seri dubbi sulla conformità di detto art.29, comma 3, del D.Lgs. n.276/2003 alla normativa comunitaria, tenuto soprattutto conto che la Corte di Giustizia UE ha ricondotto nell'ambito del trasferimento d'azienda l'ipotesi in cui il nuovo appaltatore del servizio "riassuma, in forza di un contratto collettivo di lavoro, una parte del personale del subappaltatore, a condizione che la riassunzione riguardi una parte essenziale, in termini di numero e di competenze, dei dipendenti che il subappaltatore destinava all'esecuzione dei lavori subappaltati" (Corte di Giustizia, 24 gennaio 2002, C-51/00, Temco Service Ind. c . S. Imzilyen).

La norma in questione resterà, comunque, pienamente operante sino a quando la Corte di Giustizia non avrà condannato l'Italia per non adeguata attuazione della direttiva in materia di trasferimento d'impresa (Cfr. anche: Stefano Lenghi, "Operazioni di esternalizzazione (outsourcing) ed internalizzazione dei processi produttivi su territorio italiano nel contesto del vigente ordinamento giuslavoristico: tipologie contrattuali, modelli di gestione ed indicazioni operative", pubblicato il 22 gennaio 2015 su questo Portale, paragrafo 3.2.2.3).

Avv. Prof. Stefano Lenghi

Qui di seguito il testo della sentenza:

Cass., Sez. Civ. Lav., 06 marzo 2015 n.4601

Lavoro - Trasferimento d'azienda - Presupposti costitutivi - Onere della prova a carico del datore di lavoro cedente.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 4.4.2013 la Corte di Appello di Ancona ha confermato la decisione del giudice di primo grado che aveva accolto la domanda del dipendente C. G. L., di accertamento dell'inefficacia del dedotto trasferimento del ramo d'azienda effettuato da T.I. spa alla M.P. F. Spa con conseguente persistenza del rapporto di lavoro con la detta lavoratrice. Per quanto qui interessa la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza di un interesse ex art. 100 c.p.c., la mancanza di elementi che comprovassero la dedotta volontà del lavoratore di rinunciare alla contestazione della cessione del contratto ed ha osservato che nella vicenda in esame non era ravvisabile una cessione di ramo d' azienda sussumibile nell'ambito della disciplina di cui all'art. 2112 c.c. per mancanza del requisito dell'autonomia funzionale del ramo ceduto. La Corte territoriale ha sottolineato che la cessione aveva riguardato dotazioni di ufficio assolutamente esigue ed erano stati limitati a soli 20.000,00 euro gli interventi manutentivi trasferiti, così come una serie di interventi erano stati conservati alla diretta gestione del cedente. Non era emersa una stabile e persistente funzionalizzazione del complesso ceduto, dell'esistenza di un servizio chiaramente individuato e distintamente apprezzabile sul piano economico.

Ricorre T.I. Spa, domandandone la cassazione per quattro motivi. Resiste I'intimato con controricorso, illustrato da memorie.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell'art. 1362 e 1406 c.c. L'impugnativa del trasferimento era avvenuta dopo oltre cinque anni dal momento della cessione, il che dimostra la volontà del lavoratore di rinunciare all'impugnazione del contratto.

Il motivo appare infondato alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che richiede, per la dimostrazione di un "tacito consenso" del lavoratore rispetto mutamenti contrattuali che si ha diritto di impugnare,l'esistenza di elementi concreti ed inequivocabili ulteriori rispetto al mero decorso del tempo, ove non sia decorso il termine prescrizionale per far valere il diritto. Nel caso in esame, a parte il decorso del tempo, si allega la prosecuzione del rapporto di lavoro con la cessionaria, circostanza non idonea a dimostrare che il lavoratore abbia rinunciato a far valere i propri diritti nei confronti della parte cedente rispetto alla quale il lavoratore non ha posto in essere alcun comportamento concludente.

Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell'art. 100 c.p.c. Non esisteva un autonomo interesse del lavoratore ad un'azione di accertamento.

Il motivo appare infondato. Va premesso che l'interesse ad agire, in termini generali, si identifica nell'esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l'intervento del giudice. In particolare, nelle azioni di accertamento, esso presuppone uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico, tale da arrecare all'interessato un pregiudizio concreto ed attuale, che si sostanzia in una illegittima situazione di fatto continuativa e che, perciò, si caratterizza per la sua stessa permanenza (tra le altre: Cass. n. 7096 del 2012; n. 2051 del 2011; n. 11536 del 2006).

Su tale premessa si è andato consolidando, dunque, l'orientamento di questa Corte per il quale, in ipotesi di trasferimento di ramo d' azienda, sussiste l'interesse ad agire del lavoratore, stante l'incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico, non eliminabile senza l'intervento di un giudice, tale da arrecare all'interessato un pregiudizio concreto ed attuale che ben può ravvisarsi nel mutamento del datore di lavoro, ed in sostanza nel rapporto di lavoro medesimo, rilevando altresì per il creditore anche la consistenza patrimoniale dell'impresa debitrice (in termini, Cass. n. 21710 del 2012; n. 21771 del 2012). Si è anche evidenziato l'interesse dei lavoratori a non vedersi pregiudicati da operazioni economiche che prescindono dalla effettività delle esigenze organizzative per perseguire intenti elusivi delle norme (Cass. n. 5678 del 2013). Detto interesse qualificato, che altro non è che il riflesso di quell'originario interesse del creditore a non veder mutata, nel rapporto obbligatorio di cui è parte, la persona del debitore della prestazione senza consenso (principio espresso nell'art. 2740 c.c., art. 1268 c.c., comma 1, art. 1272 c.c., comma 1, art. 1273 c.c., comma 1, art. 1406 c.c.), ha trovato nella materia che ci occupa successiva conferma nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), che sottopone a termini di decadenza stragiudiziale e giudiziale l'impugnazione della "cessione del contratto avvenuta ai sensi dell'art. 2112 c.c. con termine decorrente dalla data del trasferimento". Sicché non è possibile configurare un termine di decadenza per un'azione inammissibile per mancanza dell'interesse ad agire.

Con il terzo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c. ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Erroneamente il giudice d' appello avrebbe ritenuto insussistente un trasferimento di ramo d' azienda efficace ai sensi della disposizione codicistica per mancanza di autonomia funzionale del ramo ceduto. Si critica la sentenza impugnata laddove ritiene che la esiguità dei beni oggetto della cessione rappresenti una circostanza tale da deporre nel senso della inesistenza del requisito della autonomia funzionale del ramo ceduto. Il ramo ceduto aveva effettuato l'attività stabilita nel contratto di cessione.

Con il quarto motivo si allega l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio. Il ramo ceduto aveva necessità di beni non particolarmente cospicui ed aveva effettivamente svolto l'attività prevista con i fornitori.

I motivi, che devono essere trattati congiuntamente, appaiono infondati. La Corte territoriale, dopo aver dato atto degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità nell'interpretazione di tale disposizione, ha ribadito che il legislatore non ha mai modificato la norma di cui all'art. 2112 c.c. nella parte in cui definisce il ramo di azienda come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata. L'assunto non può che essere condiviso. L'art. 2112 c.c., sia nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 18 del 2001, art. 1 vigente a decorrere dal 1 luglio 2001, sia nel testo modificato dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 32 applicabile alla presente controversia, ha mantenuto immutata la definizione di "trasferimento di parte dell' azienda" nella parte in cui essa è "intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata". Tale nucleo della disposizione è rimasto intatto, non essendo stato toccato dalle modifiche normative che hanno invece riguardato, con riferimento all'articolazione appena descritta, la soppressione dell'inciso "preesistente come tale al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità" e l'aggiunta testuale "identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento". Detta nozione di trasferimento di ramo d' azienda nella parte di testo non modificata è coerente con la disciplina in materia dell'Unione Europea (direttiva 12 marzo 2001, 2001/23/CE, che ha proceduto alla codificazione della direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, come modificata dalla direttiva 29 giugno 1998, 98/50/CE) secondo cui "è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria" (art. 1, n. 1, direttiva 2001/23).

La Corte di Giustizia, cui compete il monopolio interpretativo del diritto comunitario vivente (ex plurimis: Cass. n. 19740 del 2008), ha ripetutamente individuato la nozione di entità economica come complesso organizzato di persone e di elementi che consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di un determinato obbiettivo (cfr. Corte di Giustizia, 11 marzo 1997, C-13/95, Suzen, punto 13; Corte di Giustizia, 20 novembre 2003, C- 340/2001, Abler, punto 30; Corte di Giustizia, 15 dicembre 2005, C- 232/04 e C-233/04, Guney- Gorres e Demir, punto 32) e sia sufficientemente strutturata ed autonoma (cfr. Corte di Giustizia, 10 dicembre 1998, Hernandez Vidal, C-127/96, C-229/96, C-74/97, punti 26 e 27; Corte di Giustizia, 13 settembre 2007, Jouini, C-458/05, punto 31; Corte di Giustizia, 6 settembre 2011, C-108/10, Scattolon, punto 60). Il criterio selettivo dell'autonomia funzionale del ramo d'azienda ceduto, letto conformemente alla disciplina dell'Unione, consente di affrontare e scongiurare ipotesi in cui le operazioni di trasferimento si traducano in forme incontrollate di espulsione di personale. Pertanto nessuna censura può essere addebitata alla sentenza impugnata laddove assume il canone della "articolazione funzionalmente autonoma di un'attività economica organizzata" quale pre-requisito indispensabile per configurare una efficace cessione del contratto di lavoro senza il consenso del lavoratore, prima ed oltre la questione della preesistenza del ramo ceduto. Peraltro sull'aspetto della preesistenza del ramo ceduto di recente la Corte di Giustizia, pregiudizialmente sollecitata da un giudice italiano proprio in riferimento alla formulazione dell'art. 2112 c.c. novellata dall'art. 32 del cit. D.Lgs., ha testualmente ritenuto che "L'art. 1, paragrafo 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, ..., deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, la quale, in presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento" (CGUE, 6 marzo 2014, C-458/12, Amatori ed a.). Ciò posto la Corte territoriale ha escluso che nella fattispecie sottoposta al suo vaglio fossero emerse circostanze tali da far ritenere che nella specie fosse stata trasferita una attività organizzata "funzionalmente autonoma", con una valutazione di merito che, ove espressa con motivazione sufficiente e non contraddittoria, sfugge al sindacato di legittimità (cfr. Cass. n. 5117 del 2012, Cass. n. 20422 del 2012, Cass. n. 2151 del 2013, Cass. n. 20729 del 2013, Cass. n. 1821 del 2013, Cass. n. 24262 del 2013). Invero i giudici d'appello hanno accertato, circa l'inesistenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 2112 c.c., che la cessione aveva riguardato dotazioni di ufficio assolutamente esigue ed erano stati limitati a soli 20.000,00 euro gli interventi manutentivi trasferiti, così come una serie di interventi erano stati conservati alla diretta gestione del cedente. Non era emersa una stabile e persistente funzionalizzazione del complesso ceduto, dell'esistenza di un servizio chiaramente individuato e distintamente apprezzabile sul piano economico. Si tratta di un percorso motivazionale sufficiente e non contraddittorio, formalmente coerente nell'equilibrio dei vari elementi che ne costituiscono la struttura argomentativa, immune da vizi logici o giuridici cui si pongono censure generiche e comunque di merito. In una prospettiva processuale, poi, occorre rilevare che - come condivisibilmente sostenuto dalla Corte territoriale - incombe su chi intende avvalersi degli effetti previsti dall'art. 2112 c.c. quale eccezione al principio del necessario consenso del lavoratore creditore ceduto, fornire la prova dell'esistenza di tutti i requisiti che ne condizionano l'operatività: grava, cioè, sulla società cedente l'onere di allegare e provare l'insieme dei fatti concretanti un trasferimento di ramo d' azienda (cfr., in motivazione, Cass. n. 206 del 2004). Nella specie tale prova, secondo la valutazione di merito del giudice d'appello non è stata fornita, nè parte ricorrente individua fatti controversi e decisivi che sarebbero stati trascurati dalla Corte territoriale, in rapporto di causalità tale con la soluzione giuridica della controversia da far ritenere, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, che la loro corretta considerazione avrebbe comportato una decisione diversa. L'accertamento della insussistenza degli elementi che connotano una cessione di ramo d'azienda è di competenza del Giudice di merito ed è stata congruamente e logicamente motivata con riferimento a specifiche circostanze che appaiono genericamente contestate. Non sussistono, pertanto, le carenze motivazionali lamentate nel quarto motivo.

Pertanto si deve rigettare il proposto ricorso. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come al dispositivo, seguono la soccombenza in favore della parte costituita. Nulla nei confronti delle parti non costituite.

Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002 la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte costituita che si liquidano in euro 100,00 per esborsi, nonché in euro 4.000,00 per compensi oltre accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.


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