di Giovanni Tringali

Si parte dall'assunto che i concetti di elusione e abuso del diritto siano di fatto coincidenti.

Per rispondere alla domanda circa l'esistenza in Italia di una clausola generale di anti-abuso del diritto, occorre necessariamente definire con certezza delle questioni preliminari. Se infatti noi riuscissimo a dimostrare che una clausola generale anti-abuso esiste nell'ambito del diritto europeo e che il diritto nazionale deve conformarsi ad esso avremmo risolto il dilemma: ossia che anche in Italia esiste e deve applicarsi la clausola anti-abuso.

Ma andiamo con ordine.

Non esiste nel diritto europeo l'enunciazione di una norma generale anti-abuso. Diverso è il discorso se parliamo della giurisprudenza.

Nella giurisprudenza comunitaria si trova affermata l'esistenza di un principio generale di divieto delle pratiche abusive, fin dal 1974, a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia Van Binsbergen. Sono seguite numerose sentenze che hanno ribadito il principio che i singoli non possono avvalersi abusivamente delle norme comunitarie. Tale principio, applicato in diversi settori del diritto comunitario, è stato ritenuto operante anche in campo doganale, nel senso che non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi agevolazioni fiscali (C.G. 14 dicembre 2000 in C - 110/99, Emsland -Starke GmbH).

Tuttavia, l'esistenza di una clausola generale anti-abuso, estesa all'intero campo dell'imposizione fiscale, è stata per la prima volta affermata dalla Corte di Lussenburgo con la sentenza 21 febbraio 2006 in C - 255/02, Halifax.

 Nella parte conclusiva della sentenza Halifax la Corte dichiara: «Perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Ove si constati un comportamento abusivo, le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato».

 

La nozione di abuso delineata da tale sentenza è del tutto autonoma dalle ipotesi di frode. Si tratta di un'operazione reale, conforme a modelli legali, avente come scopo essenzialmente l'ottenimento di un vantaggio fiscale, che deve risultare da un insieme di elementi oggettivi.

La pronuncia della Corte di Giustizia aveva riguardato il campo dei tributi c.d. armonizzati (l'IVA), e dal tenore di essa si può affermare che con essa la Corte abbia voluto sancire l'esistenza di una clausola generale anti-abuso del diritto.

A questo punto dobbiamo porci il problema dell'efficacia del giudicato della Corte sul diritto europeo e sul diritto nazionale.

Con un'immagine efficace, nel suo saggio sulla Corte di Giustizia Eric Stein afferma: «Partendo dalla propria fragile base giurisdizionale, essa si è arrogata la suprema autorità di tracciare una linea di demarcazione tra diritto comunitario e diritto nazionale; inoltre ha determinato e fatto accettare l'esteso principio dell'integrazione diretta del diritto comunitario negli ordinamenti giuridici degli Stati membri e della preminenza di esso, nell'ambito della sua sfera di competenza limitata ma in fase di espansione, su qualsiasi legislazione nazionale in conflitto».

Si tratta di un'osservazione ampiamente condivisa. E' infatti ben noto che molti dei principi più importanti del diritto comunitario vanno ricercati non già nei Trattati o nelle altre fonti (regolamenti, direttive ecc.), ma nella giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Come sappiamo la Corte deve assicurare l'applicazione del diritto comunitario, infatti come recita l'articolo 19 comma 3: «La Corte di Giustizia dell'Unione europea si pronuncia conformemente ai trattati:

a) sui ricorsi presentati da uno Stato membro, da un'istituzione o da una persona fisica o giuridica;

b) in via pregiudiziale, su richiesta delle giurisdizioni nazionali, sull'interpretazione del diritto dell'Unione o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni;

c) negli altri casi previsti dai trattati».

Occorre preliminarmente affermare il ruolo centrale della Corte di Giustizia rispetto ai problemi relativi alla natura stessa del diritto comunitario come diritto di fonte giurisprudenziale, che, come tale, non può essere studiato e capito se ci si limita alla analisi e alla applicazione dei principi enunciati nelle singole sentenze.

L'organizzazione della Corte di Giustizia, le modalità di reclutamento dei suoi giudici, lo stile delle sentenze, l'esistenza o meno di una regola del precedente vincolante e comunque l'efficacia di fatto riconosciuta alle sentenze comunitarie: sono tutti aspetti che spesso rimangono sullo sfondo, ma che, al contrario, appaiono decisivi per una visione realistica del sistema comunitario.

Appare opportuno parlare dello "stile della sentenza" che si sostanzia di una serie di elementi morfologici, quali la struttura, il linguaggio utilizzato dai giudici, se e come i fatti di causa sono presentati, le modalità con cui vengono affrontate le questioni da decidere, l'eventuale ricorso a digressioni o divagazioni teoriche, il riferimento a casi precedenti, il cui studio costituisce la premessa necessaria per la comprensione della sentenza ed anche per valutare se ed in quale misura essa assume valore di precedente.

Sul modello delle sentenze continentali le sentenze della Corte comunitaria sono rese in modo collegiale, senza quindi la possibilità per i giudici di esprimere opinions dissenzienti o anche solo separate.

Ogni sentenza, dopo l'indicazione del numero della causa, delle parti e dei giudici del collegio, si articola in due parti principali, fatto e diritto, e si conclude con il dispositivo, cui segue la sottoscrizione di tutti i giudici che hanno preso parte alla decisione.

La collegialità della sentenza e lo stile impersonale non consentono sempre una adeguata comprensione dei fatti e ciò è particolarmente evidente nelle sentenze rese in materia di rinvio pregiudiziale, ove sovente è molto succinto l'esame delle questioni alla base del caso pendente avanti al giudice nazionale. Inoltre, è spesso evidente la ricerca di un compromesso tra le varie posizioni dei giudici, a scapito di una completa intelligibilità della motivazione.

Peraltro, le conclusioni dell'avvocato generale costituiscono un significativo correttivo ai limiti sopra evidenziati, in quanto esse sono redatte con uno stile colloquiale e disteso e contengono specifici riferimenti ai fatti di causa e a tutte le deduzioni svolte dalle parti. La sentenza della Corte e le conclusioni dell'avvocato generale si integrano dunque reciprocamente e, nel loro insieme, consentono l'esatta percezione dei temi alla base della decisione e una più consapevole comprensione delle scelte adottate dalla Corte. E' allora evidente che lo studio di ogni sentenza della Corte non può prescindere da una attenta considerazione delle conclusioni dell'avvocato generale, al fine di individuare in modo realistico e completo la ratio decidendi.

La maggior parte dell'attività della Corte è assorbita dalla giurisdizione in sede di rinvio pregiudiziale, che assume uno specifico interesse ai nostri fini in quanto la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto comunitario interpretata dalla Corte: è a questo livello che sorge il problema di stabilire entro quali limiti le decisioni della Corte costituiscono dei precedenti vincolanti.

Dobbiamo chiederci quale valore i giudici nazionali devono attribuire alle sentenze comunitarie.

La Corte Costituzionale ha avuto occasione di chiarire da tempo che sono inammissibili le questioni di costituzionalità aventi ad oggetto norme legislative contrastanti con norme comunitarie dotate di efficacia diretta. Sin dalla celebre sentenza Granital[1], la Corte Costituzionale ha chiarito che il carattere direttamente applicabile della norma comunitaria implica che la norma interna che contrasta con essa deve essere disapplicata dal giudice comune, senza bisogno di una pronuncia esplicita della Corte. In questo modo la Corte Costituzionale richiede al giudice comune non solo di affrontare la questione comunitaria prima di quella costituzionale, ma anche di esaminare la giurisprudenza della Corte di Giustizia, perché laddove esistano "precedenti puntuali pronunce" il giudice si deve ad esse uniformare.

La Corte costituzionale ha adottato un approccio molto deciso circa il valore da attribuire alle sentenze della Corte. Sin dal 1985 ha precisato che la normativa comunitaria entra e permane in vigore nel nostro territorio senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato e questo principio vale anche per le statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia.

Ed ancora: "le statuizioni della Corte di Giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni"; sicché i giudici nazionali sono tenuti a sottoporre la questione alla Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale.

C'è quindi un potere normativo delle sentenze della Corte di Giustizia che in qualche misura si trasla al giudice comune, visto che è tenuto a valutarne la giurisprudenza.

Per funzione nomofilattica o nomofilachia nel diritto si intende comunemente il compito di garantire l'osservanza della legge, la sua interpretazione uniforme e l'unità del diritto in uno Stato nazionale.

Tale funzione nell'ordinamento italiano è descritta dall'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario italiano (R.D. 30 gennaio 1941 n. 12):

«La corte suprema di Cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge.

Alla luce di quanto enunciato sopra, tale funzione ha subito una modifica estensiva data l'adesione dell'Italia al sistema giuridico europeo.

La sentenza Chiappella[2] della Corte di Cassazione introduce nel nostro ordinamento tributario il principio dell'abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, nella versione finale espressa dalla sentenza Halifax, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppure realmente volute ed immuni da invalidità, risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale.

In sentenze anteriori si faceva riferimento al vantaggio fiscale come "scopo esclusivo" o ad operazioni compiute "al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale".

Da tale diversità di espressione, rispetto a quelle adottate in passato, il Giudice di legittimità argomenta la possibilità che la presenza di altri scopi economici (oltre il risparmio fiscale) consenta ugualmente di ritenere poste in essere pratiche abusive, con conseguente applicazione del principio dell'abuso del diritto.

Altra importante affermazione della sentenza Chiappella è l'estensione del principio dell'abuso del diritto alla imposizione fiscale diretta; ricordiamo infatti che la pronuncia della Corte di Giustizia aveva riguardato il campo dei tributi c.d. armonizzati (l'IVA).

La Corte europea, nel giudizio Part Service[3], confermava che l'abuso può ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale, cioè non esclusivo, con la conseguenza che l'abuso sussiste quando concorrono marginali e non determinanti ragioni economiche.

Pertanto la Corte di Cassazione, recependo in sentenza 17 ottobre 2008, n. 25374, la interpretazione data dalla Corte comunitaria all'avverbio "essenzialmente", in relazione al caso in esame, sanziona la piena operatività nell'ordinamento nazionale della Generalklausel, di matrice comunitaria, secondo cui ricorre l'abuso del diritto nell'impiego di forme o strumenti giuridici, conformi a modelli legali, al fine di realizzare quale scopo principale un risparmio d'imposta, anche se allo stesso si accompagnano secondarie finalità di contenuto economico.

Quanto all'onere probatorio, l'individuazione dell'impiego abusivo di una forma giuridica incombe all'amministrazione finanziaria, la quale non può limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma deve individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l'operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d'imposta[4] .

Mentre, incombe al contribuente la prova dell'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico che siano idonee ad escludere l'abusività[5]

Ciò che non sembra in linea con il diritto comunitario è che mentre nella disciplina comunitaria dell'abuso del diritto non è prevista l'irrogazione di sanzioni, ma soltanto l'applicazione del trattamento tributario della fattispecie elusa, nel diritto nazionale all'accertamento di un maggiore imponibile consegue anche il relativo regime sanzionatorio.

Nel nostro ordinamento mancavano, fino ad epoca recente, sia disposizioni che consentissero di distinguere tra elusione fiscale legittima ed illegittima sia disposizioni che indicassero la reazione dell'ordinamento nel caso di violazione di principi del sistema. Si è, quindi, iniziato a contrastare il fenomeno dell'elusione con il criterio casistico, nel senso che sono state legalmente previste e sanzionate le fattispecie elusive a mano a mano che esse emergevano dall'esperienza pratica.

Così, in tema di imposte sui redditi da capitale, l'art. 2 del d.l. 512/1983, convertito in legge 512/1983 ha introdotto la c. d. maggiorazione di conguaglio, costituente una sorta di imposta aggiuntiva applicata in occasione della distribuzione dei dividendi, per impedire che i soci godano di un credito per le imposte che la società non abbia pagato, e avente finalità di impedire effetti di erosione o di elusione fiscale[6]

Con riferimento alla determinazione del reddito d'impresa, l'art. 76, comma 5, del d.P.R. 917/1986 (che regola il c.d. transfer pricing) ha disposto che i componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente controllano l'impresa, siano valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato, in forza del rinvio operato dal comma 2, secondo i criteri fissati dall'art. 9 dello stesso t.u.i.r. (che individua tale valore nel "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza ed al medesimo stadio di commercializzazione"). Ciò al fine che all'interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l'applicazione di prezzi inferiori al valore normale dei beni ceduti, onde sottrarli alla tassazione in Italia a favore di tassazioni estere inferiori[7]

L'art. 30 del d.l. 69/1989 ha introdotto nell'art 37 del d.P.R. 600/1973 il terzo comma che consente, in sede di rettifica o di accertamento, l'imputazione al contribuente dei redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona.

Essendosi, poi, constatato che i comportamenti più aggressivi da parte dei contribuenti, sul piano dell'elusione, si realizzavano soprattutto nei redditi d'impresa e nelle operazioni societarie attraverso sofisticati schemi di pianificazione fiscale internazionale, si è attribuito, con l'art. 10 della legge n. 408 del 1990, all'amministrazione finanziaria il potere di "disconoscere ai fini fiscali i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di fusione, concentrazione, trasformazione, scorporo e riduzione di capitale poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta".

A tali operazioni sono state poi aggiunte, con l'art. 28 legge 724/1994, quelle di liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti, cessione o valutazione di valori immobiliari.

L'allegato al d.l. 372/1992, convertito in legge 429/1992, ha inserito nell'art. 14 del t.u.i.r. i commi 6-bis e 7-bis, diretti al disconoscimento del credito di imposta, nelle operazioni di dividend washing e dividend stripping, a favore, nel primo caso, degli acquirenti di azioni da un fondo comune di investimento che, dopo averne percepito i dividendi, abbiano rivenduto i titoli al fondo stesso, e, nel secondo caso, degli usufruttuari di azioni residenti nel territorio dello Stato percettori dei dividendi, a seguito di costituzione di usufrutto sulle stesse da parte di soggetti non residenti.

Infine, viene introdotto dall'art. 7 del d.lgs. n. 358 del 1997 l'art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, che, al comma 1, dispone: "Sono inopponibili all'amministrazione finanziaria gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi e divieti previsti dall'ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi altrimenti indebiti"; al comma 3, successivamente integrato, elenca specificamente le operazioni che possono dar luogo a fenomeni elusivi, comprensive di tutte quelle già evidenziatesi in precedenza.

Siamo di fronte ad una elencazione che, per quanto molto ampia, non esaurisce tutti i possibili casi di elusione, quindi non ad una clausola generale, bensì, come definita da qualcuno, "quasi generale". Per l'integrazione della fattispecie elusiva, caratterizzata dalla mancanza di valide ragioni economiche e dal fine di conseguire un vantaggio fiscale, è sufficiente che vi sia un aggiramento di obblighi o divieti, non necessariamente fraudolento.

Nella sentenza della Corte di Cassazione Sezione V del 04/04/2008 n. 8772 si afferma che: «l'ottica dei rapporti elusione/norma legislativa si è così ribaltata e le singole norme "anti-elusive" vengono invocate non più come eccezioni ad una regola, ma come mero sintomo dell'esistenza di una regola».

Riguardo alla questione del riferimento della sentenza della Corte di Giustizia, in cui si stabiliva l'esistenza del principio generale anti-abuso, ai soli tributi armonizzati (iva - sentenza Halifax) c'è da segnalare che a partire dalla fine del 2008, le S.U[8] affermavano il principio che, in tema di tributi non armonizzati, il riconoscimento di un generale principio antielusivo andava rinvenuto non nelle sentenze della Corte di Giustizia quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano e, specificamente, nei principi di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione (primo e secondo comma dell'art. 53 Cost.).

E qui si apre il capitolo delicato della differenza tra norme programmatiche e norme precettive insite nella costituzione. Le prime analisi svolte sull'articolo 53 della Costituzione ebbero, come conseguenza, un'interpretazione svalutativa del concetto di capacità contributiva, attraverso l'attribuzione di un senso vago ed indeterminato.

Gli economisti, i primi ad analizzare questo concetto, lo considerarono come uno scatolone vuoto a cui il legislatore poteva attribuire la portata più varia a seconda delle scelte di politica fiscale contingenti. Prevalse, quasi subito, l'idea che l'articolo 53 fosse una norma programmatica, idea, questa, avvalorata anche da alcune sentenze della Corte di Cassazione, secondo cui le disposizioni dei primi due commi dell'articolo 53 della Costituzione erano programmatiche e quindi non di immediata applicazione, lasciando al legislatore la possibilità di una successiva e più completa determinazione e specificazione di tale concetto.

Studi sul concetto di capacità contributiva, da parte di importanti giuristi, hanno fatto venir meno l'originario significato vago ed indeterminato attribuito dagli economisti, per rivelare un concetto importante quale quello di forza economica. Di conseguenza l'articolo 53 della Costituzione cessa di essere una norma meramente programmatica, per diventare una norma precettiva, cioè con efficacia vincolante per il legislatore ordinario.

L'articolo 53, primo comma, rappresenta, ora, non solo un criterio di misurazione del prelievo di ricchezza, ma anche il presupposto di legittimità dell'imposizione tributaria e si collega strettamente al principio di uguaglianza sancito nell'articolo 3 della Costituzione. Infatti da esso si desume che le prestazioni tributarie devono gravare in modo uniforme su soggetti che manifestano la stessa capacità contributiva, e in modo differente, secondo il criterio della progressività, su soggetti che hanno manifestazioni di ricchezza differenti.

Nonostante possiamo dare per acquisito il carattere precettivo della norma di cui all'art. 53, appare forzata l'interpretazione delle sezioni unite della Cassazione secondo cui il riconoscimento di un generale principio antielusivo andava rinvenuto non nelle sentenze della Corte di Giustizia quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali.

Affermare, come ha fatto la Cassazione, l'esistenza di una clausola generale anti-abuso nel diritto nazionale solo per effetto del principio stabilito dall'art 53 cost. secondo cui: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva" è veramente arduo. La clausola sancita dalla Corte di Giustizia è sicuramente molto più precisa nei suoi contorni, molto più esplicita.

Basti pensare che il legislatore italiano prudentemente ha proceduto di volta in volta inserendo nell'ordinamento giuridico fiscale le varie specifiche norme antielusive. Ciò conferma la difficoltà di definire compiutamente la nozione di abuso del diritto

L'abuso e l'elusione si verificano quando il contribuente consegue un vantaggio fiscale indebito, che tradisce la ratio della norma o, comunque, un vantaggio disapprovato dal sistema.

Se il vantaggio fiscale si consegue, invece, non rispettando una previsione di legge, si è nel campo dell'evasione.

Pur ammettendo l'esistenza nel diritto comunitario e di conseguenza nel diritto interno di una clausola generale di abuso del diritto, è bene chiarire che al cittadino si chiede una valutazione circa la ratio della norma.

Il cittadino potrebbe benissimo dichiarare di aver avuto come obiettivo il risparmio d'imposta, che come sappiamo è pienamente legittimo quando il contribuente consegue un vantaggio fiscale previsto dalle disposizioni tributarie in vigore.

L'onere di creare delle norme sufficientemente chiare e certe spetta al legislatore. E' evidente che il mezzo di lotta contro abuso ed elusione è un parziale sacrificio del principio di legalità e tassatività: l'applicazione analogica della norma che prevede il trattamento tributario più severo.

Chi strumentalizza la legge contro il suo spirito (e ottiene quindi un vantaggio che è legale ma non è conforme allo spirito della legge stessa) non può farsi scudo, a fini fiscali, del principio di legalità, se ha agito solo per risparmiare il tributo.

Uno dei problemi più rilevanti è quello di stabilire un bilanciamento tra la certezza e prevedibilità del diritto, da un lato, e il dovere di solidarietà (che impone di astenersi da sottrazioni strumentali all'obbligo di contribuire).

Tra legalità e solidarietà, vince la solidarietà se la condotta è abusiva e non sostenuta da altri motivi.

Un altro problema, assai complesso ma fondamentale è quello di individuare positivamente quando vi sia un abuso.

Per esserci l'abuso non basta che il soggetto ottenga un vantaggio tributario, ma che esso, pur legale, sia contrario nello specifico caso, allo scopo della norma che lo prevede.

Occorre evitare di cadere nel travisamento del concetto di abuso (il cui presupposto strutturale centrale è l'ottenimento di un vantaggio "non meritato", "contrario allo spirito del sistema") che è cosa del tutto diversa e ulteriore dall'ottenere un vantaggio "preordinato", "voluto".

L'assenza di valide ragioni economiche non costituisce il ruolo di elemento essenziale dell'abuso, ma, al contrario, è la sussistenza di tali ragioni a costituire un'esimente.

La questione dell'abuso del diritto allora si pone tra il de iure còndito e il de iure condendo. Tra un principio già esistente (sviluppato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e direttamente applicabile nel diritto interno) e un principio che può essere meglio codificato dal legislatore ordinario.

Certo è che neanche un legislatore illuminato potrà mai esplicitare un concetto così chiaro da eliminare in questa materia ogni possibile dubbio, riuscendo a contemperare le diverse esigenze sottese alla questione: da una parte l'esigenza di rispettare il principio di legalità, tassatività e certezza del diritto, dall'altra il principio di solidarietà, uguaglianza e, in particolare in materia fiscale, il principio della capacità contributiva.

Occorre affidarsi alla Iuris prudentia, la scienza del diritto, ricognitiva dello ius ma anche creativa dello ius con le decisioni della Corte di Giustiza.

Anche se il diritto della Comunità costituisce un ordinamento giuridico autonomo nei confronti degli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non bisogna peraltro credere che l'uno e gli altri si sovrappongano. Contro una visione così limitata delle cose interviene il fatto che essi si rivolgono, in realtà, alle stesse persone che sono nello stesso tempo cittadini di uno Stato e cittadini della Comunità; d'altro canto, va tenuto conto del fatto che il diritto comunitario prende corpo solo se è recepito negli ordinamenti giuridici degli Stati membri. In realtà, gli ordinamenti comunitari e nazionali sono concatenati ed interdipendenti.

Dato per assodata l'esistenza della clausola generale del divieto di abuso del diritto sia in ambito comunitario sia in ambito nazionale (per effetto non dell'art. 53 della costituzione ma bensì per la giurisprudenza della Corte di Giustizia), il problema si sposta sulla concreta applicazione di tale principio. Spetta difatti all'amministrazione finanziaria ed in seconda istanza al giudice comune stabilire se il caso concreto violi la clausola generale di divieto di abuso del diritto.

Sicuramente è più facile per l'amministrazione finanziaria dimostrare un caso di elusione fiscale qualora il caso concreto realizzi una delle fattispecie specificamente descritte dal legislatore nazionale. Ben venga allora la tecnica usata dal legislatore consistente nel creare diritto man mano che se ne presenta l'occasione. Ciò, non solo non contrasta assolutamente con il diritto comunitario che stabilisce l'esistenza della norma generale di abuso del diritto ma ne fissa man mano i casi astratti possibili ed anzi già verificati, tra l'altro nel pieno rispetto del principio di legalità e tassatività della legge.

Sembra questa la strada giusta. Se è difficile definire le norme ed i principi di diritto assai più difficile può risultare applicare la legge al caso concreto.

Giovanni Tringali  - Forze dell'ordine - Provincia di Gorizia

[1] Corte Cost., 8 giugno 1984, n. 170, in Giur. cost., 1984, I, p. 1098.
[2] Cass. 29 settembre 2006, n. 21221
[3] Sentenza 21 febbraio 2008 in C - 425/06
[4] Sentenza Cass. 2008/25374
[5] Sentenza Cass. 2008/8772; 2008/10257
[6] Sentenza Cass. 2004/19152
[7] Sentenza Cass. 2006/22023
[8] in tre sentenze nn. 30055, 30056 e 30057 depositate nella stessa data del 23 dicembre 2008

Altri articoli che potrebbero interessarti:
In evidenza oggi: