di Angelo Casella - In questi momenti di chiacchiere vacue o devianti, riteniamo molto utile riprendere in argomento, le limpide riflessioni del Presidente dell'Ecuador, R.Correa, recentemente formulate all'Università della Sorbona (v.:Le Monde, dic. 2013).

Molto significativo appare innanzitutto sottolineare le identità esistenti tra l'attuale situazione europea e quella già vissuta dai Paesi latino-americani nel recente passato.

Negli anni '70, infatti, queste nazioni evidenziarono anch'esse un forte incremento dell'indebitamento esterno.

Il fenomeno si verificò a seguito di una intensa pressione diplomatica regionale (a volte con toni impositivi) degli organismi finanziari internazionali. Emissari qualificati di costoro, "suggerirono" a quei governi dei piani di sviluppo che avrebbero dovuto favorire la crescita, mediante la creazione di industrie in grado di produrre localmente i beni che venivano importati. L'elevato rendimento di questi investimenti avrebbe consentito agevolmente il rimborso dei debiti.

Questa situazione andò avanti fino al 1982, quando il Messico dichiarò ufficialmente la propria impossibilità a far fronte regolarmente ai rimborsi alle scadenze previste.

Questo episodio determinò, da un lato, l'immediata sospensione dei prestiti a tutti i Paesi dell'America latina e, dall'altro, un brutale incremento dei tassi di interesse sui debiti già in essere. Concordati inizialmente ad un livello del 4% circa, di colpo vennero alzati al 20%, provocando immediatamente enormi difficoltà ai debitori ed una situazione generalizzata di crisi del debito.

In dipendenza di queste variazioni dei tassi, nel decennio '80, i Paesi dell'America latina ebbero a trasferire agli enti creditori attività nette per 554 miliardi di dollari (al valore attuale). Nello stesso tempo, in dipendenza della capitalizzazione degli interessi, il debito esteriore complessivo era aumentato da 223 miliardi di dollari (nel 1980) a 443 miliardi nel 1991. Di fatto, alla fine degli anni '80 il reddito pro-capite era tornato ai livelli degli anni '70 in tutta la regione.

La situazione di crisi di bilancio indotta dai giganteschi trasferimenti di danaro sopra indicati ha indotto diversi Paesi dell'America latina a sottoscrivere le "lettere d'intenti" subito proposte dal FMI come condizione sia per la concessione diretta di nuovi aiuti finanziari, sia per costituirsi garante nella rinegoziazione di prestiti bilaterali.

Queste lettere d'intenti prevedevano l'adozione di programmi d'aggiustamento strutturale comprendenti: riduzione delle spese di bilancio, aumento dei prezzi dei servizi pubblici, privatizzazioni, cessioni di beni pubblici, aumento delle imposte, ecc. In sostanza, imponevano l'adozione di programmi economici che modificavano profondamente gli assetti sociali, secondo criteri decisi dallo stesso FMI.

In definitiva, tutte misure non erano intese a uscire dalla crisi (ed infatti questa si è ovunque aggravata) ma a rimborsare i crediti ricevuti, nel quadro di quella pseudo-teoria economica che doveva essere battezzata "neoliberalismo" (o "Washington consensus").

Ne costituiva il perno principale l'assunto che la crisi era da imputarsi ad un intervento eccessivo dello Stato nell'economia, alla mancanza di un sistema di prezzi liberi, e all'isolamento dai mercati internazionali.

Queste regole "economiche" denunciano la loro vera natura e valenza politica essendo scopertamente intese ad attribuire dominante rilevanza decisionale - nell'ambito della società - ai (pochi) detentori di grandi capitali finanziari.

(Con questo sistema, in pratica, oggi, l'1,001% della popolazione mondiale ha così assunto più potere della rimanente quota degli abitanti della Terra).

A seguito di una campagna di marketing ideologico senza precedenti, presentata come ricerca scientifica, tutta la regione sudamericana abbracciò il credo neoliberista: libertà assoluta ai mercati, e via libera alla deregolamentazione (sopratutto del mercato dei capitali) e alle privatizzazioni.

L'Europa, a dispetto della sua salda tradizione culturale, ha oggi egualmente abbracciato queste presunte teorie economiche, ripetendo passo, passo, gli stessi errori commessi dai Paesi latino-americani.

Le banche europee hanno concesso consistenti prestiti alla Grecia ben sapendo che il deficit di bilancio era superiore di tre volte a quello dichiarato ufficialmente. A riprova del fatto che il problema dell'eccesso di indebitamento (cosa di cui ci si dimentica spesso), ha una controfaccia: l'eccesso di credito.

Gli effetti della adozione delle misure di austerità non si sono fatti attendere: aumento vertiginoso ovunque della disoccupazione, riduzione media del 6,4% delle spese di bilancio, con gravi ricadute su sanità e istruzione, riduzione - a volte drammatica - del livello di reddito individuale.

A livello politico queste contrazioni della spesa vengono giustificate sostenendo che si sono ridotte le entrate, ma grandi quantità di denaro vengono intanto concesse al settore finanziario. In Grecia, Irlanda e Portogallo i "salvataggi" bancari hanno superato l'ammontare complessivo dei salari annuali.

Guardiamo cosa è successo a Cipro. I problemi cominciano - come al solito - con la deregolamentazione del settore bancario, le cui banche concedono crediti (sopratutto alla Grecia) per un ammontare superiore al Pil cipriota. Nel 2013, la BCE, il FMI e la Commissione europea (la c.d."Troika") propongono un "salvataggio" di 10 miliardi di euro. Alla condizione che vengano adottate misure di austerità, tra cui la riduzione del settore pubblico nell'economia, la riforma delle pensioni, la privatizzazione delle imprese pubbliche strategiche, il pareggio di bilancio, la riduzione delle spese sociali, il blocco dei conti bancari superiori a 100 mila euro, e la creazione di un "fondo di salvataggio finanziario" destinato a risolvere i problemi delle banche.

Provvedimenti, tutti, che non tanto puntano ad uscire dalla crisi con il minor costo per i cittadini, bensì a garantire il pagamento dei debiti alle banche private. I problemi delle banche devono essere risolti da tutta la popolazione.

In Spagna, parimenti, la deregolamentazione bancaria e l'accesso troppo facile al credito hanno determinato una enorme espansione dei crediti ipotecari che hanno galvanizzato la speculazione immobiliare. Le stesse banche cercavano i clienti, stimavano il valore delle loro case e si affrettavano anche a concedere finanziamenti ulteriori per l'acquisto dell'auto, dell'arredamento, di elettrodomestici, ecc.

Quando però la bolla immobiliare scoppia, il debitore non è più in grado di rimborsare il suo debito: ha perso il lavoro. Allora gli viene tolta la casa, ma questa vale molto meno di quanto lui stesso l'ha pagata. La sua famiglia si ritrova sulla strada e indebitata a vita. Nel solo 2012 si calcola che vi siano stati più di 200 sfratti al giorno. E questo spiega i numerosi suicidi di tanti padri di famiglia.

Tutto ciò impone una domanda: perché non si provvede in una direzione che pure sembra evidente e si ripetono in continuazione gli stessi errori, sia da una parte che dall'altra dell'Atlantico?

Perché il problema è essenzialmente politico: chi deve dirigere le nostre società e la nostra vita? Gli uomini o il capitale?

E' stato commesso un torto all'economia, corrompendone la natura, che è squisitamente politica. Ogni decisione economica implica infatti in se medesima una scelta politica. Spendere una certa somma per costruire un ospedale o per tenere in piedi una banca, è una scelta politica.

Si è sparsa la credenza che si tratti di una materia strettamente "tecnica", mentre si mascherava come una scienza quella che era null'altro che pura ideologia.

L'avidità di nuovi profitti è stata alla base di tutto questo.

La strategia di indebitamento intensivo che ha determinato la crisi latino-americana, non aveva per obbiettivo di aiutare quell'area a svilupparsi.

Rispondeva al deprecabile desiderio di far fruttare gli eccessi di liquidità provenienti dal forte rialzo dei prezzi del petrolio seguito alla guerra del 1973. Tra il 1975 e il 1980 rileviamo che i depositi nelle banche internazionali sono aumentati da 82 miliardi di dollari a 440 miliardi (ai valori attuali 1226 miliardi).

E' stata così focalizzata l'attenzione sui Paesi del Terzo mondo, che hanno cominciato a ricevere le assidue visite di banchieri internazionali pronti a offrire ogni sorta di crediti, perfino per coprire le spese correnti o acquisti di armamenti per i dittatori militari, numerosi all'epoca nell'area.

Questi personaggi, che mai si erano visti prima in quelle zone, avevano con se grosse valigie di mazzette destinate a facilitare la sottoscrizione dei prestiti.

Contemporaneamente, gli organismi finanziari internazionali e le agenzie dello sviluppo, recitavano a gran voce la fiaba che la soluzione dei problemi dei Paesi americani era l'indebitamento.

E qui siamo di fronte ad un altro momento critico.

Se l'indipendenza delle banche centrali serve, nei fatti, a garantire la continuità di una certa impostazione politica, quale che possa essere l'esito delle consultazioni elettorali, essa è stata invece imposta ai Paesi civili come un imperativo "tecnico" agli inizi degli anni '90 e ciò sulla base della fantasiosa considerazione che le banche centrali "indipendenti" avrebbero potuto agire su basi "tecniche", al di fuori delle pressioni politiche. (In realtà, adottando questa pseudo-teoria, si dovrebbe rendere indipendente anche il Ministero delle finanze, la cui politica di spesa dovrebbe anch'essa essere puramente "tecnica").

Nel periodo che ha preceduto la crisi, l'unica dominante preoccupazione delle banche centrali indipendenti è stata di mantenere il controllo dell'inflazione e ciò significa, in concreto, trascurare l'obbiettivo del pieno impiego delle risorse. Sul piano politico, analogamente, si è pervenuti all'assurdo che, invece di mettere in atto ogni sforzo per attenuare la recessione e ridurre la disoccupazione, ci si è preoccupati solo di contenere la spesa, aggravando entrambe.

Le banche centrali indipendenti, che si preoccupano unicamente dell'inflazione, fanno parte del problema, non della sua soluzione. Costituiscono uno dei fattori primari che mantengono l'Europa nella crisi.

Il potenziale europeo è peraltro ancora immenso. L'Europa dispone di talenti umani, di risorse, di tecnologia. Occorre pervenire a costruire una politica economica della domanda, riequilibrando le forze operanti all'interno della società così da superare politiche oggi contrarie a tutto ciò che sarebbe socialmente desiderabile.

I cittadini, cui spetta questo cambiamento, sono però disorientati e ingannati dalle pretese teorie "scientifiche" e dai burocrati degli organismi finanziari, che hanno piazzato i loro uomini anche direttamente nei governi (in Grecia, Italia, Spagna e Portogallo).

In conclusione, anche se ciò pone degli interrogativi inquietanti, non resta che rammentare le rivelazioni di Perkins (Confessioni di un sicario dell'economia) che ha svelato come costituisca una consolidata strategia degli Usa di convincere con ogni mezzo gli esponenti dei Paesi esteri presi di mira affinché contraggano debiti enormi che poi non potranno mai restituire, consegnandosi così al ricatto della potenza egemone. Del resto, anche l'URSS è stata abbattuta con un'abile manovra di strozzamento finanziario. La finanza è diventata uno strumento di dominio globale.

Angelo Casella

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