di Roberto Cataldi - Dopo aver letto le diverse opinioni espresse nelle discussioni ospitate in questo portale, mi permetto di intervenire per esprimere il mio personale punto di vista su una problematica che dovrebbe essere affrontata sul piano della psicologia sociale oltre che su quello strettamente giuridico.

Dal punto di vista giuridico, la proposta di legge contro l'omofobia intende semplicemente colmare una lacuna legislativa, estendendo le sanzioni già previste dall'art. 3 della legge n. 654 del 13 ottobre 1975 nei confronti di chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, anche a chi compie o istiga a compiere i medesimi atti per motivi fondati sull'omofobia o sulla transfobia.

Da tale prospettiva, non sembrano esistere motivazioni giuridicamente fondate perché si possa prevedere un diverso trattamento sanzionatorio per comportamenti violenti e discriminatori tenuti nei confronti di chi appartiene a una diversa razza o etnia rispetto ad analoghi comportamenti tenuti nei confronti di omosessuali e transessuali. Non avrebbe senso, in ogni caso, punire in modo diverso chi incita alla violenza contro una persona di colore rispetto a chi incita alla violenza contro un omosessuale.

Generalmente, le principali obiezioni che vengono mosse alla discussa proposta di legge sono due:

1. il termine "istigare" potrebbe prestarsi a interpretazioni distorte, con il pericolo, sia pur remoto, che un giudice possa ricomprendere nella previsione normativa anche il comportamento di chi esprime opinioni contrarie alla pratica dell'omosessualità.

2. non c'è bisogno  di prevedere aggravanti specifiche per gli omosessuali (né per gli altri soggetti già indicati dall'attuale legge), perché qualsiasi istigazione alla violenza andrebbe considerata grave in quanto tale e punita senza distinzioni basate sulla natura della persona offesa. Inoltre, secondo questa obiezione, per qualsiasi ipotesi di violenza, se motivata da odio verso il diverso, sarebbe applicabile l'aggravante dei futili motivi già prevista dal codice penale.

A mio parere entrambe le obiezioni, che pur rispetto, non sono condivisibili: la prima perché basata sullo sul timore di una lettura completamente distorta della norma da parte di un magistrato; la seconda perché la previsione di una specifica aggravante è da ritenersi utile in un contesto storico in cui dilaga l'odio e la violenza ingiustificata nei confronti delle minoranze e delle diversità in generale.

Detto questo, quello che dovremmo chiederci prima ancora di decidere se e come contrastare il fenomeno dell'omofobia è perché nella nostra società si continua ad avere paura del diverso.

Indubbiamente il discorso investe uno dei problemi più complessi della psicologia sociale: la paura della diversità. La base di tale paura, o quantomeno diffidenza, è intuitiva: si teme ciò che è diverso in quanto si teme ciò che non si conosce, non si comprende e di conseguenza si rifiuta, si esclude dalla propria sfera sociale.

Tale paura ha indubbiamente radici ataviche, primordiali, in particolare se rivolta verso se stessi: il timore di non venire accettati, che stimola quindi la tendenza all'omologazione. Si tratta di una problematica estremamente evidente specialmente tra i bambini e ancora più tra gli adolescenti, spinti ad adottare comportamenti e atteggiamenti "dominanti", ricorrenti all'interno del gruppo, proprio per l'ansia di farsi accettare.

E' quindi la stessa società ad imporci sin da piccoli ad adottare un determinato range di comportamenti, fortemente associati al nostro sesso: alle bambine vengono regalate bambole e cucine in miniatura, mentre ai maschietti pistole ed eserciti di plastica. Mentre in questi ultimi sarà naturalmente incoraggiata l'aggressività, nelle prime verranno al contrario stimolate doti quali dolcezza, accondiscendenza e pazienza. È naturale che i bambini seguano il trend: per non essere etichettati come "diversi" e soprattutto per sentirsi parte di una collettività, tenderanno a conformarsi ai propri coetanei finendo con lo "smussare" i propri angoli accettando comportamenti e atteggiamento che pure non percepiscono come propri, o nei quali addirittura si sentono a disagio. Allo stesso tempo, tenderanno a sospettare di chi non si adegua alle abitudini del gruppo, a chi viene percepito come estraneo e diverso.

Sembra inoltre che già a partire dall'ottavo mese di vita i bambini inizino a sviluppare la paura per la diversità, anche se si tratterebbe, come afferma lo psicologo John Bowlby, di una problematica legata a una specifica fase della crescita in cui il bambino percepisce l'estraneo come pericoloso. In questo modo il piccolo rafforza il suo legame con la propria madre: si tratta di un passaggio naturale oltre che indispensabile per lo sviluppo del bambino e, ragionando in termini evolutivi, per la stessa sopravvivenza della specie.

Il problema è che il 'bambino' prima o poi deve superare queste paure ed aprirsi alla socializzazione e al confronto con l'Altro.

Da bambini e da adolescenti si tende quindi ad omologarsi al gruppo perché non ci si vuole sentire esclusi dalla comunità. Allo stesso tempo, si tende inevitabilmente ad escludere il diverso, a temerlo e a considerarlo pericoloso. La maturità rappresenta invece, spesso, un momento di presa di coscienza delle proprie caratteristiche personali e distintive, e diventa quindi un importante momento di auto-accettazione seguito dal confronto, ora consapevole, con gli altri.

Con un riferimento ad uno dei padri della psicologia analitica, si può potrebbe dire che il percorso di individuazione descritto da Karl Gustav Jung, tramite il quale ogni individuo, attribuendo progressivamente significato ai simboli che vede intorno a sé, arriva a formare la propria personalità, si adatta perfettamente alle dinamiche descritte. Secondo Jung infatti, il graduale processo che porta alla piena consapevolezza di se parte proprio dall'incontro con ciò che lui definisce l'"Ombra", vale a dire tutti gli aspetti che non conosciamo di noi stessi e che spesso rifiutiamo di accettare. L'ombra, spiega Jung, è il lato "oscuro", inferiore, indifferenziato della personalità che spesso contrasta con le regole consacrate delle tradizioni e che per questo viene rifiutato, ma  che potrebbe invece rendere  la nostra esistenza umana più vivace e più bella.

Sempre secondo Jung, la società tende a conformare gli esseri umani, negando il loro libero arbitrio e creando flussi ordinati e unidirezionali. La natura - al contrario - impone alle trote di andare controcorrente, stimola l'indipendenza, trova fondamento nella stessa biodiversità. Per realizzarsi, l'individuo deve dunque compiere un percorso di individuazione. Aprire il suo cuore alle parti più autentiche della propria personalità ed aprirsi al confronto con l'altro. Peccato che, come afferma ancora lo stesso Jung, tanti uomini muoiono senza aver mai ritrovato se stessi.

Roberto Cataldi


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