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Maltrattamenti in famiglia anche se la vita comune è finita da tempo

Per la Cassazione, non scatta il reato di stalking, ma permane quello di maltrattamenti in famiglia anche se viene meno la convivenza


Reato di maltrattamenti in famiglia e cessata convivenza

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Il reato di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche quando la convivenza di fatto viene meno. Per cui, anche se la convivenza more uxorio viene a cessare, da qual momento non sono qualificabili come stalking le condotte poste in essere ai danni della ex convivente. Queste in estrema sintesi le precisazioni della Corte di Cassazione contenute nella sentenza n. 30129/2021 (sotto allegata).

La vicenda processuale

La Corte di Appello conferma la sentenza di primo grado con cui il giudice ha ritenuto responsabile l'imputato per il reato di maltrattamenti familiari commesso ai danni della convivente, con l'aggravante di averli perpetrati alla presenza delle due figlie minori.

I maltrattamenti cessano se la convivenza more uxorio viene meno?

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Il difensore dell'imputato ricorre in Cassazione sollevando i seguenti motivi di doglianza.

Deposita poi nuovi motivi e insiste soprattutto per l'accoglimento del primo motivo esposto nel ricorso.

Maltrattamenti in famiglia anche la convivenza è cessata

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La Cassazione rigetta il ricorso dell'imputato perché infondato in riferimento a tutte le doglianze sollevate.

In relazione al primo motivo di ricorso la Cassazione chiarisce prima di tutto la differenza tra il reato di maltrattamenti familiari (art. 572 c.p) e quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) nei seguenti termini:

"II reato di maltrattamenti, spiega la Corte, è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l'assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell'interesse delle persone alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L'ambito applicativo dell'incriminazione pertanto dipende dall'estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, "intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per le strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità della convivenza o di una stabile coabitazione". Al di là della lettera della norma incriminatrice («chiunque») il reato di maltrattamenti familiari dunque è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un "ruolo" nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di "autorità" o peculiare "affidamento" nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall'articolo 572 cod. pen. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate. "

"Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia "reiterati" (integrando appunto un reato abituale) e che non presuppone l'esistenza di relazioni interpersonali specifiche." Il delitto di atti persecutori è invece aggravato se la convivenza di fatto è cessata e se i partner abbiano interrotto qualunque rapporto in modo che non si può più parlare in senso formale o informale di "famiglia."

Gli Ermellini affermano quindi il seguente principio di diritto: "le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorché si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorché i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza".

Inammissibile il secondo motivo di doglianza in quanto la Corte di Appello si è attenuta al principio per il quale, in sede di appello, si procede a rinnovazione dell'istruttoria solo se dalla verifica effettuata, emerge l'impossibilità di decidere in base al corredo probatorio raccolto fino a quel momento. Principio di cui la Corte di appello, nel caso di specie, ha fatto corretta applicazione, visto che la figlia è risultata affetta da un'invalidità del 75% con diagnosi di ritardo mentale, che hanno condotto i medici a un giudizio dubitativo sulla sua capacità di testimoniare.

Inammissibile anche il terzo motivo, visto che le dichiarazioni della persona offesa possono essere poste da sole a fondamento della affermazione della penale responsabilità dell'imputato se la stessa risulta credibile e attendibile. Attendibilità che la Corte di Appello ha ben valutato e motivato.

Stesse conclusioni d'inammissibilità anche in relazione al quarto motivo di ricorso, poiché i giudici di merito hanno argomentato esaustivamente le ragioni per le quali le richieste estorsive sono riconducibili all'imputato.

Data: 24/08/2021 22:00:00
Autore: Annamaria Villafrate