Torna la rubrica domenicale in compagnia anche di Iris Origo, Biagio Marin e Raymond Carver

di Paolo M. Storani - Oggi è una Pasqua per certi versi inedita (sicuramente) ed irripetibile (si spera); avremmo mai immaginato tutto questo… no!

Potrebbe essere un'occasione per ripensare ai giorni pasquali dell'infanzia. Ascoltate un po' Roberto Cotroneo in Il sogno di scrivere, Utet, 2014, pag. 70: «Riavvolgere il nastro non significa solo riprendersi il passato, ma anche riprendersi l'infanzia, l'entusiasmo, il sogno, la fantasia».

In questa puntata n. 16 di «Frammenti» si parlerà di come e quando si scrive e si viaggerà accompagnati dalle pagine di grandi scrittori, anche se queste storielle sono davvero minime, ma sono pur sempre le…

Short stories di Studio Cataldi!

Frammenti: le Short Stories

1. Tra Recanati e la Val d'Orcia con Leopardi ed Iris Origo

Forse scrivere è ricerca del ritmo.

Scrivere è… riscrivere, cioè levigare. Limare.

Eliminare senza pietà il superfluo che appesantisce il testo. Anche se quel testo che andiamo a sopprimere ci è costato ore, giorni di fatica.

«Il resto è come scalare una montagna. Il paesaggio si forma un passo dopo l'altro» sostiene Fabio Stassi, uno dei più raffinati e poliedrici scrittori nel catalogo di quelli che, come vi ho confidato nella prima puntata, popolano la mia fantasia.

Ero bimbetto e il primo contatto che ebbi con quello che andrà a scalare il mio Pantheon letterario, Giacomo Leopardi, fu di tipo scaramantico ed apotropaico: il volgo era convinto, in qualche anfratto delle sue… memorie del sottosuolo (abuso della ricchezza polifonica della prosa di Dostoevskij), che… fosse un menagramo.

Curioso, no? Lo stesso destino affliggerà artisti di livello mondiale in campo musicale come Sergio Endrigo e Mia Martini.

Passiamo sopra alla superstizione; del resto Hemingway, in special modo quando scriveva, aveva in tasca come portafortuna una castagna (rigorosamente amara) e una zampa di coniglio (povero coniglio). Soccorre anche qui Cotroneo. Non ci sarà mai scrittore più invidiato, più ammirato: «Chi si crede di essere? Hemingway?».

Invece a me Leopardi piaceva decisamente mentre lo osservavo, all'epoca era ventiduenne, nel famoso ritratto di Palazzo Leopardi - olio su tela - del 1820, opera del pittore Ferrazzi. Risaltano gli occhi azzurri, il naso molto pronunciato e i capelli un po' ribelli.

Incentivato da mia madre Maria Rosaria, ch'era insegnante d'italiano alle scuole medie (sempre classi femminili fin quasi al pensionamento: un grande vantaggio alle gite scolastiche essere il figlio della prof.ssa di latino, storia, geografia!), accumulo visite su visite alla Casa Leopardi di Recanati e ci porto persino la mia cara amica Patrizia Ziviz.

Ziviz, splendido cognome palindromo di area slovena: si legge egualmente anche in senso inverso, è una studiosa di diritto civile presso l'ateneo di Trieste che apprezzo molto, nonché madrina del danno esistenziale.

Venne così la lettura dell'intera opera dell'immenso poeta. Unico.

Chi vuole iniziare un corso di scrittura creativa deve per forza di cose partire da quel profondo, passionale amore di Giacomo per la lingua italiana, «sovrana immensa onnipotente».

Cesellatore di vocaboli, innamorato della lingua ch'era il suo «strumento», nemico degli «arcaismi», come scriveva nello Zibaldone.

Proviamo a calarci nel suo laboratorio guidati dalla maestria di Iris Origo.

«Instancabile, inesorabile, egli sfrondava i suoi scritti da ogni improprietà, da ogni inutile orpello, fino a quando aveva raggiunto la cadenza soddisfacente, l'armonia perfetta».

Chi è Iris?

Iris Margaret Cutting (coniugata Origo) nasce nel 1902 in una colta famiglia britannica; è una grande scrittrice di cultura cosmopolita che serba in seno un amore irrefrenabile per l'Italia.

La può pure coltivare per via del trasferimento della sua famiglia in Toscana ove scriverà uno stupendo saggio, «Guerra in Val d'Orcia», che me la fa conoscere mentre, in estasi, giravo in lungo ed in largo, il territorio senese.

Iris studia le successive stesure della pagina del Giovane Favoloso: «significa avere libero accesso all'officina di Leopardi - come, nella Firenze del Cellini, qualsiasi cittadino poteva aggirarsi nella bottega dell'artista e osservare la cesellatura di un arto o la doratura di una foglia». Ho in mano "Leopardi, A Study in Solitude", edito in Italia da Castelvecchi, ed. 2015.

«Vagheggiare» per Leopardi è un «bellissimo verbo» e per il rimanente della giornata non scrive più niente; come se - pone in risalto Iris - «il suo spirito si fosse soffermato per ore su quella parola. Questa non è pedanteria: è passione».

Il pensiero va subito a Gina Lagorio (nata Luigina Bernocco) ossessionata dalla «pulizia» infinita della pagina: «mi devono strappare il manoscritto di forza, portarlo di corsa in casa editrice, impedirmi di riguardarlo un'ultima volta».

2. Scrivere dove? Al caffè San Marco di Trieste con Claudio Magris e Biagio Marin

Aperto il 3 gennaio 1914 e a tratti laboratorio di passaporti falsi per i patrioti antiaustriaci, «il San Marco è un'arca di Noè, dove c'è posto, senza precedenze né esclusioni, per tutti, per ogni coppia che cerchi rifugio quando fuori piove forte e anche per gli spaiati» (Claudio Magris, Microcosmi, Garzanti, 1997, ma la mia edizione è RCS, 2003).

Tranne Claudio Magris, che gli fu amico, nessuno conosce, ricorda e cita più Biagio Marin, dimenticato poeta che nasce a Grado (in dialetto Grau) in epoca di dominio austriaco.

Nella vita lavorativa Biagio Marin era un impiegato delle Assicurazioni Generali di Trieste, addetto alla - rullo di tamburi, prego! - biblioteca.

Sì, quella stessa Generali che ora è una probabilmente cinica multinazionale che ha un grattacielo che sfida il cielo e sormonta lo skyline di Milano in una competizione con il colosso dell'Allianz, disponeva di una fornitissima biblioteca a Trieste.

Addetto il dipendente Biagio Marin.

Per Magris, che se non fosse uno degli scrittori italiani più conosciuti del mondo, sarebbe solo il n. 1 dei germanisti, il poeta nato alla foce dell'Isonzo rappresenta un faro nella parabola esistenziale del grande autore di «Danubio».

Il motto del poeta Marin mi è sempre rimasto impresso ed ho cercato sempre di metterlo in pratica: «Nulla dies sine linea».

Mi rimbombava questo latinetto mentre compilavo, sormontato da pile di fonti consultate e da consultare, due enormi volumi di un Commentario sul Codice di Procedura Civile per Giuffrè.

Scrivere ogni giorno, si può scrivere una, tre oppure otto ore, ma tutti i giorni.

Si può anche scrivere su un quadernetto di tipo moleskine come amava fare Bruce Chatwin.

Il saggista indiano-britannico colpito dalla fatwa, Salman Rushdie fu costretto, per via del pericolo di essere ucciso, a cambiare cinquanta case in qualche anno, ma rigorosamente ogni giorno, alle 10:30 in punto, accende il pc e si mette alla tastiera.

Che significa? Vuol dire che la scrittura non deve arrestarsi mai e Biagio Marin ha celebrato quotidianamente il suo rito sino al punto che, per quanto era vecchio e quasi cieco, non vedeva neanche più le cose che riusciva faticosamente a scrivere.

Un aspetto che mi ha sempre colpito di Marin è che ci tenesse a presentarsi come un uomo contraddittorio, che poteva mutar di opinione nell'esplicazione della sua personalità. Quando lo leggevo pensavo: «la coerenza di essere incoerenti».

Anche Biagio ha come Leopardi il suo zibaldone in forma di diario.

La grafia di Marin è una calligrafia, scrittura piccola ma chiara, non stanca nella lettura, mentre il manoscritto di Magris è ostico, la grafia è buttata all'indietro, molto più ampia di quella di Biagio, ma indecifrabile come la ricetta medica.

Il carteggio tra i due durerà per tanti anni, dal 1958 al 1985, ed è racchiuso nel libro «Ti devo tanto di ciò che sono», curato da Renzo Sanson per i tipi di Garzanti, edito nel 2014.

3. Come e quando scrivere: spiacente, Raymond Carver non è minimalista

«Ho scoperto che se ogni giorno mi sedevo alla scrivania e mi ci applicavo con diligenza, potevo scrivere racconti sul serio, e con una certa continuità. Questa è stata probabilmente la più grande scoperta che ho fatto».

Poco sopra descrivevo la scrittura creativa di Leopardi e passo ora a Ray Carver, all'apice della piramide narrativa dei racconti brevi, ma anche delle poesie.

Specifico subito per onestà (del resto, Carver è lo scrittore della genuinità) che sono di parte e prendo fiato dall'emozione che mi pervade prima di parlarne.

La vita di Ray inizia nello Stato di Washington, a Yakima, ragazzino introverso e sovrappeso, dedito alla pesca dei salmoni lungo le sponde del fiume Columbia, in attesa di prendere il posto del padre che lavora in una segheria, affilature di lame per tagliare e spianare i tronchi degli alberi, la fabbrica è della Crossett-Western, ed è alcolizzato.

Quello era il suo destino: segheria ed alcool.

La madre, invece, lavorava come commessa o come cameriera oppure rimaneva a casa per i suoi «problemi di nervi».

Ma talvolta il padre si ritaglia uno «spazio privato»: «ogni tanto la sera - rievoca Ray - lo vedevo che si sdraiava sul letto e si metteva a leggere Zane Grey. Questo semplice fatto sembrava un gesto molto privato in una casa, in una famiglia, non molto incline alla riservatezza».

Insomma, questo «spazio privato» dedicato ai libri incuriosisce il ragazzo e lo avvicina alla lettura.

«La prima stesura in genere la butto giù a mano. Con velocità, quasi con fretta. Poi batto a macchina, e già cambio qualcosa. Aggiungo, taglio. Faccio altre due o tre stesure e a quel punto faccio vedere la bozza a Tess che mi dà il suo parere».

Si tratta della seconda moglie di Ray, Tess Gallagher, poetessa e scrittrice statunitense.

Secondo la vulgata letteraria Carver è il più grande scrittore minimalista.

Il che significa soltanto sminuirne la grandezza assoluta.

«Quel termine fa immediatamente pensare a una visione ristretta e a una capacità limitata. E' vero che cerco di eliminare dai miei racconti ogni dettaglio non indispensabile e che tento di limare le parole fino all'osso. Ma questo non fa di me un minimalista. Se lo fossi, le taglierei veramente fino all'osso. Ma non è così: gli lascio sempre addosso qualche brandello di carne».

Si giustifica così Carver in «Niente trucchi da quattro soldi» edito da Minimum Fax nel 2002 a cura di Marco Cassini, che all'epoca era comproprietario della casa editrice.

Da questo testo ho desunto la parte con cui ha inizio quest'ultimo frammento.

Ray Carver era «ossessionato dall'idea di dover scrivere qualcosa», questo racconta di sé… «e all'improvviso tutto gli fu chiaro», così citando il suo adorato Cechov.

Autore: Paolo Maria Storani

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